L’inverno demografico, la vera causa della crisi di Maurizio Milano
Una caratteristica che accomuna l’evoluzione dei Paesi avanzati negli ultimi decenni riguarda il fatto che tutti, senza eccezioni, hanno supportato la propria crescita indebitandosi sempre più, non solo per finanziare gli investimenti ma anche – in Italia “soprattutto” – per coprire la spesa corrente, cioè per alimentare artificialmente i consumi. Un modo per vivere al di sopra dei propri mezzi, rinviando alle generazioni future il problema: un escamotage che ha sempre funzionato, per lo meno finché l’evoluzione demografica supportava una crescita economica sostenuta, come per tutto il periodo 1945-1964, detto del baby boom.
Poi, però, è arrivata la stasi demografica e dagli anni ‘80 un forte calo delle nascite fino a scendere al di sotto del “tasso di sostituzione”: in assenza di flussi migratori occorre una media di 2,1 figli per donna per mantenere la popolazione stabile nel lungo termine. In Italia il tasso di fertilità è pari a soli 1,4 figli per donna, un record negativo. A complicare il quadro si è aggiunto un costante innalzamento della speranza di vita, sbilanciando la struttura demografica sempre più verso l’età avanzata, trasformando la naturale “piramide demografica” in una sorta di “fungo”.
Negli ultimi anni i più anziani della generazione dei baby boomers hanno poi iniziato ad andare in pensione, con sempre maggiori esigenze di assistenza sanitaria: i crescenti costi pensionistici e sanitari vengono a gravare su una base produttiva in contrazione, richiedendo prelievi fiscali sempre più esosi, nonostante il calo quali-quantitativo delle prestazioni fornite. Il risultato finale è quello di minare la competitività del sistema industriale, mettendo in dubbio la tenuta del sistema di Welfare State e del sistema pensionistico, così come li conosciamo.
Altro che “bomba-demografica”, quindi: sono oramai 30 anni che i Paesi sviluppati hanno smesso di fare figli, facendo inceppare il meccanismo di ricambio generazionale. L’Italia si trova a condividere col Giappone il triste primato di Paese più vecchio al mondo. L’età mediana in Italia e Giappone è sui 44-45 anni, contro i 37 degli Usa ed i 25-30 dei Paesi emergenti. In Italia, per ogni 100 persone in età lavorativa, ci sono 31 over-65enni, contro i 20 degli Usa ed i 9-10 degli emergenti.
Anche se la crisi non aiuta certamente a metter su famiglia, la denatalità è iniziata “prima” della crisi economica, non ne è quindi una “conseguenza”; anzi, probabilmente ne è una delle cause remote e strutturali, come più volte sottolineato nelle lucide analisi di Gotti Tedeschi.
Siamo arrivati al redde rationem: la “crescita a debito” degli ultimi decenni è un modello non più perseguibile. Se fino ad oggi abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, anticipando al presente il consumo di redditi futuri, da questo momento non solo non potremo più fare affidamento sui redditi futuri ma dovremo anche iniziare a saldare i debiti accumulati in passato.
Sulla base delle premesse di cui sopra, possiamo azzardare una diagnosi: non ci troviamo di fronte ad un preteso “fallimento dell’economia di mercato”, che infatti continua a produrre risultati complessivamente positivi nei cosiddetti Paesi emergenti. E la soluzione, conseguentemente, non è rappresentata dalle solite trite politiche Keynesiane, con connesso ulteriore allargamento del perimetro dello Stato: queste, semmai, sono alcune delle cause profonde della crisi in corso.
Sul banco degli imputati deve invece sedere il “paradigma della crescita a debito” in pendenza di “inverno demografico”: l’involuzione demografica che colpisce i Paesi sviluppati non fa che accelerare e portare al punto di rottura un processo di crescita di per sé squilibrato ed insostenibile. Il rischio che corrono i Paesi occidentali è quindi quello di avvitarsi in un lento declino, una decrescita deflazionistica-recessiva simile a quella giapponese degli ultimi 20 anni: una vera e propria “crisi generazionale”, particolarmente insidiosa per i giovani che si affacciano sul mondo del lavoro in questi tempi così difficili. Una grande contrazione, che scarica nel tempo il necessario sgonfiamento che sempre segue alle crescite a debito ed alle bolle finanziarie.
Le radici ultime della crisi in atto, come ricordato nella Caritas in Veritate, appaiono quindi di tipo culturale, “antropologico”, prima che economico-finanziario.
La dissoluzione della famiglia ed il declino demografico, la perdita della virtù del risparmio, l’indebito allargamento dello Stato e della spesa pubblica, l’oppressione fiscale sembrano essere le cause profonde della crisi in atto, e tutte tradiscono una profonda sfiducia nella libertà, nella responsabilità, nel futuro.
Ogni soluzione vera e duratura dovrebbe quindi fare leva sulla valorizzazione della famiglia e della natalità, del risparmio e del sacrificio, puntando alla crescita reale e non gonfiata dalla leva finanziaria, su orizzonti lunghi, con un contestuale alleggerimento della macchina pubblica e del peso fiscale: stampare moneta ed innalzare la pressione fiscale – le “terapie” messe in atto da Banche Centrali e Governi nell’ultimo lustro – non paiono andare in questa direzione. Non è sufficiente una gestione “tattica” della crisi, che rischia solo di “comprare tempo”, è arrivato il momento di pensare in modo “strategico”.