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Mercoledì 9 aprile, Camera dei deputati. All’ordine del giorno della Commissione Giustizia ci sono, fra gli altri, due provvedimenti: a. la conversione del decreto-legge sulla droga, reso necessario dalla sentenza della Corte costituzionale che ha reintrodotto la distinzione fra droghe “leggere” e “pesanti”; b. un insieme di proposte di legge che puntano a restringere ulteriormente il tempo necessario per chiedere una sentenza di divorzio. Il primo, contro ogni evidenza scientifica e di esperienza, riduce già da subito le sanzioni per chi traffica cannabis e derivati, e rischia di andare oltre – nei tempi rapidi della conversione – fino a una legalizzazione esplicita o strisciante di questo tipo di sostanze; il secondo si commenta da sé, accontentandosi di un anno fra la presentazione dell’istanza di separazione – dai tre anni attuali – e la richiesta di divorzio, o a nove mesi in assenza di figli minori.
Mercoledì 9 aprile, Senato della Repubblica. Anche lì in Commissione Giustizia si segnalano due provvedimenti: il disegno di legge, già approvato alla Camera, sull’omofobia, e quello sulle unioni civili, che ha accorpato le proposte sul matrimonio fra persone dello stesso sesso. Anch’essi hanno ripreso a marciare spediti: il primo, che vede il governo rappresentato dal sottosegretario Scalfarotto – mai era accaduto nella prassi parlamentare che il presentatore di una proposta di legge dapprima ne fosse relatore in un ramo del Parlamento e poi esprimesse di esso il parere dell’esecutivo nell’altro ramo –, con la bocciatura degli emendamenti di buon senso presentati da senatori di esperienza come Giovanardi, Bianconi e Malan, e con la possibile approvazione di emendamenti peggiorativi presentati da esponenti di Pd, Sel e M5S; il secondo, col deposito di un testo-base prossimo quanto a impostazione alla civil partnership: per avere un’idea della equiparazione sostanziale che tale testo opera con il matrimonio, basta pensare che ammette la disposizione di una quota corrispondente alla legittima nella successione ereditaria e, a determinate condizioni, la pensione di reversibilità.
Mercoledì 9 aprile, Corte costituzionale. Proseguendo un’opera di demolizione della legge sulla fecondazione artificiale, che in passato aveva già eliminato il divieto di crioconservazione e aveva reso possibile la selezione genetica degli embrioni, la Consulta – con una sentenza di cui si attendono le motivazioni – apre alla fecondazione c.d. eterologa, dichiarando illegittime le norme che la precludevano e quelle che la sanzionavano. Radicali e libertari hanno di che gioire: la Corte fa oggi quello che loro avevano provato – senza riuscirci – nel 2005: il quesito n. 4 del referendum da loro presentato, bocciato dagli italiani, è invece accolto dai 15 giudici costituzionali. Il ministro della salute Lorenzin ha ragione nel definire complessa l’attuazione di questa pronuncia, dal momento che la fecondazione artificiale eterologa presenta difficoltà irrisolvibili: intanto il conflitto fra il diritto all’anonimato del donatore/donatrice di gameti e il diritto dei figli a conoscere i loro genitori biologici; poi i rischi per la salute del figlio, derivanti dall’anonimato del donatore, e quindi l’impossibilità di una anamnesi completa; ancora, la difficile “neutralità” della madre surrogata nel caso di affitto di utero (pardon: “gestazione di sostegno”, come impongono le linee-guida Unar per i giornalisti), soprattutto nei casi in cui questa “madre” fosse anche la donatrice di gameti.
Che tutto ciò avvenga nello stesso giorno non è un caso. Un filo rosso ideologico lega la facilità di scomporre la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna – il divorzio sprint – con la sostanziale equiparazione al matrimonio, per come finora è stato disciplinato, dei diritti e dei doveri derivanti dall’unione civile, anche fra persone dello stesso sesso. Col ricorso all’eterologa, la rivendicazione del sottosegretario Scalfarotto nell’intervista di qualche sera fa a Invasioni barbariche – “possiamo avere figli”, proclamava riferito a sé stesso e al proprio compagno – sarà una realtà; è vero infatti che nella legge 40 la fecondazione artificiale è ammessa per coppie sposate o conviventi da almeno tre anni: ma, sommando la disciplina delle unioni civili in discussione con gli effetti della sentenza costituzionale, è fatta! E se qualcuno ha qualcosa da obiettare ecco – nuove di zecca – le sanzioni penali, con tanto di carcere e di pene accessorie, della legge omofobia: pronte a colpire chi ardisca sostenere che la crescita e l’educazione di un bambino riescono meglio potendo contare su un padre e su una madre, e non su due persone del medesimo sesso; o chi osi richiamare lo squilibrio familiare causato dall’eterologa, sulla base dell’esperienza di altre Nazioni (il senso di estraneità facile a crearsi nel genitore non biologico ha portato negli USA, dove l’eterologa è ammessa, al divieto di disconoscimento di paternità, a causa dell’alto numero di richieste di questo tipo da parte dei padri unicamente “sociali”).
È tutto? Non ancora. Commentando in modo entusiastico la sentenza della Consulta, l’Associazione Luca Coscioni ha indicato il passaggio successivo: “smantellare il divieto di ricerca sugli embrioni”, ovviamente “per la libertà di ricerca scientifica”; è un obiettivo che alla “cultura dello scarto” non può mancare, ovviamente lasciando in piedi l’obiezione di coscienza nei casi di sperimentazione sugli animali!
Chi in Parlamento guarda con orrore all’avanzare congiunto di queste leggi ha una quantità di compagni di strada incomparabilmente inferiore rispetto al passato. Chi nel mondo giudiziario o in quello accademico è ancora convinto che il diritto debba fondarsi su una sana antropologia si ritrova sempre più isolato. Eppure tutto questo accade a pochi anni di distanza dalla vittoria referendaria del 2005, dell’approvazione della legge 40 nel 2004 e di un’ottima riforma sulla droga nel 2006, e dalla riaffermazione delle ragioni della famiglia col Family day del 2007. Eppure è stato sufficiente che, con mezzi prossimi allo zero, gruppi di giovani allestissero le Sentinelle in piedi in un po’ di piazze, alternandosi con la Manif italiana, e che Comitati come Sì alla famiglia esponessero, non da soli, le ragioni naturali della comunità familiare, per frenare il vari dei provvedimenti che – tutti insieme – hanno ripreso il percorso parlamentare, affiancati dalle spallate libertarie della Consulta. Queste realtà svolgono una funzione importante, ma non possono arrestare la concentrazione istituzionale, mediatica e lobbistica delle forze del fronte avverso; è necessario che torni in piazza il popolo del Family day e che tutti coloro che hanno voce in capitolo, nelle chiese, nelle università o nelle aule giudiziarie, dismettano i panni della rassegnazione e della convinzione che non c’è molto da fare. Attendere ancora, con i pretesti più svariati, non significa necessariamente condividere, ma certamente equivale ad accettare quel filo rosso ideologico che sempre più procede “da (prima della) culla a (dopo) la bara”.