ad un secolo dall’apocalisse di Marco Cimmino

“Ad un secolo dall’apocalisse

Alla fine di luglio del 2014, saranno trascorsi cento anni dallo scoppio della prima guerra mondiale: un evento che non solo ha radicalmente e definitivamente cambiato l’Europa, ma che ha anche segnato un punto di non ritorno nella coscienza collettiva
dell’umanità. La ‘guerra delle guerre’ ha seppellito un intero universo di simboli, di convinzioni e di certezze e ne ha creato un altro, certamente più moderno e, se possibile, ancora più disperato. Insomma, ha traghettato il mondo nella modernità. Ad un secolo da quel fatale 28 luglio del 1914, dopo che sono stati scritti milioni di pagine sulla Grande Guerra, rimangono vivi, paradossalmente, nell’immaginario collettivo, moltissimi equivoci su quel conflitto: sulle sue origini, le sue cause, sulle ragioni dei contendenti, sulle sue conseguenze e perfino sul suo andamento. Questo lavoro, estremamente succinto, si propone, con tutti i limiti di un’operazione del genere, di proporre il racconto di quei terribili eventi, suggerendo una serie di riflessioni che permettano di avere una visione più chiara e, possibilmente, meno stereotipata, della guerra 1914-18: a partire dalle sue origini remote, fino ad arrivare alla descrizione della discussione storiografica che ha avuto inizio subito dopo la sua conclusione, e che non si è ancora esaurita. Negli anni più vicini a noi, ad esempio, ha prevalso, almeno in Italia, l’idea di una guerra del tutto estranea al sentimento popolare, in cui i soldati combattevano semplicemente perché l’alternativa sarebbe stata essere passati per le armi: una guerra fatta di plotoni d’esecuzione e di un esercito di potenziali disertori. In modo uguale e contrario, durante il Ventennio venne descritta una guerra di popolo: di volontari garibaldini e di fanti entusiasti di compiere il Risorgimento. Va da sé che entrambe queste versioni si siano rivelate manichee e per nulla scientifiche. Una storia raccontata per suffragare un’ideologia è sempre una cattiva storia. Cercheremo, quindi, di dar conto dei fatti, giudicandoli, ovviamente, ma evitando le pastoie degli ideologismi ed attenendoci, per quanto possibile, allo stretto giudizio scientifico. Se non sempre ci riusciremo, ne chiediamo venia al lettore in anticipo: sarà, comunque difetto di scienza e non di buona fede.

Un’Europa di irresponsabili

Per molto tempo, è stata in voga una chiave di lettura della Grande Guerra, nota come ‘versione britannica’, secondo cui la maggior parte, se non tutta, la responsabilità del conflitto avrebbe dovuto ricadere sulla Germania guglielmina e sulle sue smanie imperialistiche: questa visione ebbe un successo pressochè unanime negli anni Venti, perdendo, in seguito, buona parte del proprio vigore, con il cambiare delle posizioni politiche in Europa. Inevitabilmente, la tragedia del Nazismo e della seconda guerra mondiale ebbe un effetto trascinante sulla “Brit Version” e, nel secondo dopoguerra, si tornò ad attribuire agli imperi centrali la quasi totale colpa per lo scoppio della Grande Guerra. Oggi, si tende a ritenere la prima guerra mondiale come il prodotto, apparentemente inevitabile (in realtà evitabilissimo) di diverse dinamiche geopolitiche ed economiche, che, tutte insieme portarono alla crisi e all’escalation del luglio’14: la recente pubblicazione dei diari del senatore Albertini, allora direttore del Corriere della Sera, è, in questo senso illuminante e rappresenta un’ottima lettura propedeutica allo studio del conflitto. Dunque, possiamo, in questo secondo capitoletto, porre già un punto fermo: stabilire la colpa dell’innesco della conflagrazione mondiale del 1914, più che difficile, è inutile. Troppi interessi si sono accumulati da entrambe le parti a favore della guerra e troppi hanno determinato, a posteriori la sua interpretazione: la cosa migliore è cercare di tener presente come, in ogni epoca, opposte sfere d’influenza economica, politica e culturale, quando vengano a collidere, suscitano conflitti durissimi. La Grande Guerra fu uno di questi momenti di collisione: il colonialismo mondiale britannico, il revanscismo francese, l’espansionismo serbo, l’aggressività tedesca, la voglia di emergere italiana e la crisi inarrestabile dei tre grandi imperi, austriaco, russo ed ottomano, furono gli ingredienti di una miscela esplosiva, che distrusse il vecchio mondo. Ma non dobbiamo dimenticare che la Grande Guerra, nonostante che, come vedremo, fosse largamente prevedibile, nei modi e nei tempi in cui avvenne, prese un po’ tutti di sorpresa: fu uno shock tanto strategico quanto diplomatico. Nei prossimi capitoli analizzeremo, perciò, le cause remote e recenti del conflitto, ma anche i segnali che lo precedettero, fin dalla metà del XIX secolo, e che furono, come spesso accade, largamente sottovalutati.

Prove tecniche di guerra moderna

Il primo conflitto moderno, almeno dal punto di vista tecnologico, fu la guerra civile americana. Tanto per cominciare, non fu la guerra di una campagna: non durò, cioè, come le guerre del passato, per il breve volgere di una stagione, risolvendosi con una battaglia decisiva, in cui un esercito annientasse l’altro. Il Nord e il Sud combatterono ferocemente per quattro anni, perdendo centinaia di migliaia di uomini ed affrontando problemi logistici, strategici e piscologici mai presentatisi prima. Nel 1861, quando la guerra scoppiò, esistevano già le armi a retrocarica e a canna rigata, come i temibili cannoni Dahlgren e Parrott: nel corso del conflitto, fecero la loro comparsa le mitragliatrici manuali Gatling, le carabine a ripetizione Spencer, le corazzate e perfino un antenato dei moderni sottomarini. Senza contare che il generale R. Lee, geniale comandante in capo dell’armata sudista, cominciò ad utilizzare un elemento fisso, utile alla manovra, che avrebbe avuto enorme importanza nella Grande Guerra: la trincea. I risultati di questa iniezione di tecnologia nell’arte della guerra furono immediatamente visibili: in un certo senso, il semplice valore non bastò più a determinare una vittoria campale. Bisognava fare i conti con lo spaventoso potenziale di queste nuove armi. Se, in epoca napoleonica, uno scontro spesso si risolveva con una carica alla baionetta o con gli squadroni di cavalleria, cinquant’anni dopo, il volume di fuoco di un reparto di fanteria trincerato, dotato di armi a ripetizione e a canna rigata, rese del tutto impossibile questa tattica: i moderni fucili cominciavano a colpire i nemici ad una distanza di sette-ottocento metri, rispetto al centinaio di metri di un fucile napoleonico, con una precisione ed una velocità di tiro che avrebbe annullato qualunque impeto. Ne fecero le spese le eroiche colonne grigie confederate, che, in decine di battaglie, andarono mille volte all’assalto di posizioni avversarie, subendo perdite insostenibili. La difesa stava gradatamente prevalendo sull’attacco: questo è il primo segnale che, dal passato, giunse ai generali del 1914, evidentemente, piuttosto distratti.

La guerra russo-giapponese

Segnali ancora meno equivocabili giunsero ai generali del 1914 dalle guerre che seguirono quella civile americana: guerre e guerricciole in cui la potenza di fuoco delle nuove armi rifulse, con la sua terribile efficienza. La guerra del 1870, tra Francesi e Prussiani, dimostrò abbondantemente come il metodo fosse destinato a prevalere sull’impeto: a Sedan l’impressione del meticoloso lavorio di formiche dei tedeschi fu tale da riverberare perfino sulle pagine de “La Dèbacle”. Alla fine del secolo, furono le milizie boere di Smuts e di Botha a dimostrare come il tempo degli schieramenti da parata fosse finito per sempre: i tiratori scelti del Transvaal decimarono le disciplinatissime truppe di sua maestà britannica, finchè non arrivò Baden-Powell con i suoi campi di concentramento, a decidere le sorti della guerra. La prova ulteriore e definitiva di quanto le nuove armi potessero mutare le sorti ed i modi delle guerre fu data dal conflitto russo-giapponese: intorno a Port Arthur, nella battaglia di Mukden e, soprattutto,a Tsushima, mitragliatrici e torpedini, mine ed artiglierie ebbero un palcoscenico straordinario. I Russi si credevano immensamente superiori: Kuropatkin sulla terra e Rožestvenskij sul mare non avrebbero mai pensato di andare incontro a due disfatte. A Mukden, i Russi persero circa 120.000 uomini. La flotta del Baltico, con un lunghissimo periplo, arrivò in Indocina. Qui, nello stretto di Corea, li attendeva l’ammiraglio Togo, con i suoi cannoni armati a balistite (mentre quelli russi usavano ancora polvere nera), i cui proiettili da 305 millimetri perforarono le corazze delle navi di linea zariste come fossero fatte di burro: ne affondò più del sessanta per cento. Era la prima volta che un nemico di colore sconfiggeva dei bianchi in una vera guerra: in Europa, però, nessuno ci fece gran caso. La Manciuria era tanto remota da sembrare poco più che una leggenda: lo Zar aveva altri uomini, altre navi. Invece, da quella guerra combattuta tanto lontano dal Vecchio Continente ci sarebbe stato moltissimo da imparare: una guerra contro il clima, contro il fango, combattuta nelle trincee, con le navi bloccate dai campi minati, con gli shrapnel e con le mitragliatrici pesanti, il filo spinato, i moderni esplosivi balistici. Quello fu il vero prologo credibile della Grande Guerra: ma nessuno pareva voler avvertire questi segnali e, nelle grandi manovre, gli eserciti dell’Intesa e quelli della Triplice Alleanza continuavano a simulare campagne ottocentesche, con le batterie a cavallo che arrivavano al galoppo e le divise dai colori sgargianti. Eppure, la Grande Guerra aveva già cominciato a fare capolino in Europa: i Balcani, al tempo della pace di Portsmouth, nel 1905, erano già una polveriera.

Guerre balcaniche, panserbismo e panjugoslavismo

La Serbia, nel corso del XIX secolo, aveva ottenuto la propria indipendenza dall’impero ottomano. Fu governata da una famiglia principesca, quella degli Obrenovic, a partire dal riconoscimento del principato, nel 1878: nel 1903 era Alessandro I Obrenovic a regnare sulla Serbia. Un complotto, organizzato da un ex primo ministro, il radicale Nicola Pasic, con l’aiuto del capitano dei servizi segreti Dimitrijevic, di cui sentiremo ancora parlare, portò all’eccidio di Belgrado, in cui il re e la regina Draga furono assassinati: salì al trono Peter Karageorgevic, esponente della dinastia principesca da sempre rivale degli Obrenovic, con il nome di Pietro I e diede subito inizio ad una politica molto più ostile all’impero asburgico, suo scomodo dirimpettaio, rispetto al suo predecessore. La dottrina Karageorgevic (dove c’è un Serbo è Serbia), insieme ad una forma specifica di panslavismo, il panjugoslavismo (Jugo-Slavi= Slavi del sud), portò ben presto lo stato balcanico ad una rotta di collisione con l’impero austroungarico. Nel 1912 e nel 1913, nei Balcani scoppiarono due guerre che rivestirono enorme importanza per i successivi sviluppi storici: nella prima, la Turchia venne sconfitta ed estromessa definitivamente dalla regione balcanica, mentre la seconda vide l’affermazione dell’egemonia serba su tutta la penisola, dopo che i Serbi ebbero battuto la Bulgaria, che ambiva al medesimo ruolo dominante e da cui la Serbia era stata sconfitta in un conflitto precedente, nel 1885. In seguito alle due vittoriose guerre balcaniche, Pietro I si trovò con un esercito mobilitato, addestrato e già esperto del moderno combattimento e, probabilmente, questo lo invogliò a raddoppiare la posta, puntando a Bosnia, Croazia e Slovenia, che erano regioni dell’impero. L’impero asburgico, fin dalla prima metà del XIX secolo, era percorso da tensioni nazionaliste ed irredentiste: Magiari, Slavi ed Italiani mal sopportavano la supremazia tedesca e cercavano, ad ogni occasione utile, di ottenere autonomie, se non addirittura l’indipendenza. Nel 1867, l’Ungheria aveva finalmente ottenuto il sospirato “Ausgleich”, l’atto di parificazione: naturalmente, anche le altre nazionalità desideravano un simile trattamento e queste forme più meno sotterranee di irredentismo indebolivano il già traballante impero e facevano il gioco della Serbia, che, in nome della fratellanza slava, soffiava sulla brace. All’interno dell’impero si andava affermando una nuova dottrina riformista, che prese il nome di “Trialismo” e che mirava alla concessione dell’”Ausgleich” anche agli Slavi: la Serbia, ovviamente, non poteva permetterlo, perchè questo avrebbe vanificato i suoi progetti panjugoslavi. Fu questa necessità, come vedremo, ad armare la pistola di Gavrilo Princip a Serajevo.

Il trialismo

Il trialismo (in tedesco Trialismus, ma anche Dreiteilung, ossia divisione in tre parti) non fu un movimento nato da tensioni libertarie o riformiste: fu una scelta dettata dalla necessità e dalla Realpolitik. Le energie scatenate dai nazionalismi europei, nel corso dell’ultimo scampolo del XIX secolo, all’interno dell’impero divennero forze centrifughe: quello che altrove si trasformava in sciovinismo, sotto gli Asburgo diveniva irredentismo e minacciava la struttura stessa dello stato. Boemi, slovacchi, moravi, ruteni, sloveni, croati, serbi di Kraijna, bosniaci, formavano un universo ribollente, in cui la dottrina panslava e il movimento nazionale “Sokol”(Falco) fungevano da catalizzatori del malcontento slavo. In opposizione alla linea massimalista sostenuta dalla Serbia, che mirava all’indipendenza degli slavi da Vienna (naturalmente, per far passare gli slavi del sud sotto ad un’egemonia serba), nacque il trialismo: una svolta riformista e moderata, che permettesse, attraverso la concessione della parità agli slavi, la sopravvivenza dell’impero. Non dunque un’ideologia progressista, ma una sorta di extrema ratio, per difendere il trono di Franz Josef. Non a caso, il campione della causa trialista, l’erede imperiale Franz Ferdinand, era tutt’altro che un pacifista: egli era, anzi, in ottimi rapporti con il comando supremo di Baden, che spesso considerava troppo arrendevole la politica estera dell’imperatore. Tuttavia, agli occhi del Karageorgevic, Franz Ferdinand era un minaccioso antagonista: se il trialismo avesse vinto, questo avrebbe disinnescato il malcontento slavo all’interno dell’impero, rendendo impossibili i progetti annessionistici della Serbia e l’idea della Jugoslavia unita. La proclamazione della Bosnia, già di fatto occupata dall’Austria-Ungheria fin dal 1878, come regione dell’impero, avvenuta nel 1908, in un certo senso aveva rappresentato un punto di non ritorno: era evidente che, nei Balcani, non potevano esserci due padroni e che, presto, si sarebbe arrivati ai ferri corti. Anche per questo, le grandi manovre imperiali del 1914, all’indomani del trattato di Bucarest e della fine delle guerre balcaniche, si tennero proprio in Bosnia: fu in questa occasione che l’erede al trono, insieme alla moglie Sophia, decise di recarsi a far visita alle truppe, impegnate nelle esercitazioni. Come vedremo, per i servizi segreti di Belgrado, per la società segreta “Ĉrna Ruka” e per Pietro I questa dovette sembrare un’occasione da non farsi scappare: probabilmente, dunque, l’attentato di Serajevo non fu opera di un gruppo di giovanissimi patrioti serbo-bosniaci, ma venne architettato dal solito Dragutin Dimitrijevic, il famigerato colonnello “Apis”, che fornì ai congiurati bombe e pistole browning. Una di queste, il 28 giugno 1914, avrebbe sparato i primi colpi della Grande Guerra.

Sarajevo

La data scelta per la visita di Franz Ferdinand e di sua moglie alle truppe, impegnate nelle grandi manovre in Bosnia, non avrebbe potuto essere più infelice: il 28 giugno del calendario gregoriano, infatti, corrispondeva al 15 giugno di quello giuliano, in uso presso le popolazioni ortodosse. Era il giorno di San Vito, che, per qualunque serbo, rappresenta, ancora oggi, l’anniversario della terribile sconfitta di Kosovo Polje, che, nel 1389, aveva segnato l’inizio della dominazione musulmana sullo stato balcanico. Va da sé che la decisione di effettuare una visita di stato nella Bosnia, da poco annessa, manu militari, all’Impero, proprio il giorno in cui i Serbi ricordavano l’inizio di una terribile oppressione, si caricò di molteplici significati irredentisti. A questo, vanno ad aggiungersi altri elementi che resero, per l’arciduca, estremamente rischiosa, al limite dell’incoscienza, la giornata fatale di Sarajevo. Tanto per cominciare, soltanto quattro anni prima, nella capitale bosniaca vi era stato un tentativo di assassinare il governatore austro-ungarico: il 28 giugno, il successore di quel governatore, nonché comandante delle truppe imperiali in Bosnia, Oskar Potiorek, sedeva sullo stesso phaeton scoperto di Franz Ferdinand e di sua moglie. Inoltre, non era stata presa nessuna misura speciale di sicurezza nei confronti della coppia arciducale: la data della visita, gli orari e perfino l’itinerario che il corteo avrebbe seguito erano stati pubblicati. Va detto anche che, in origine, Franz Ferdinand avrebbe dovuto recarsi solamente al campo, per assistere alle manovre: quella di far visita anche alle autorità di Sarajevo fu un’idea sua, a dimostrazione di una spensieratezza veramente fuori dal comune. Infine, l’Evidenzbureau di Vienna aveva avuto numerose soffiate circa la possibilità che un gruppo terroristico avesse in mente di attentare alla vita dell’erede al trono, durante la sua visita nella capitale bosniaca: anche a queste indicazioni, però, non si volle dare importanza. In effetti, all’inizio, la cellula terroristica che avrebbe ucciso l’arciduca sembrava tutto fuorchè un gruppo di fuoco: si trattava di tre giovanissimi affiliati alla società Mlada Bosna (Giovane Bosnia), disorganizzati e del tutto impreparati militarmente, cui si aggiunsero altri quattro congiurati, parte serbi e parte bosniaci. Vista così, sembrava la solita azione velleitaria: un’organizzazione da operetta. In realtà, questi sette ragazzi sprovveduti vennero scelti come esecutori dell’operazione dai servizi segreti di Belgrado, venuti a conoscenza dei loro progetti grazie ad un agente della Crna Ruka serba (Mano Nera), Milan Ciganovic, che funse da contatto tra il colonnello Apis, di cui abbiamo già detto, e il commando di Sarajevo, nel frattempo salito a quindici membri. Fu proprio Ciganovic a fornire ai congiurati le bombe e le quattro pistole browning con cui fu effettuato l’attacco terroristico contro Franz Ferdinand. Dunque, in fondo, hanno ragione sia gli storici che parlano di caso e di improvvisazione, sia quelli che attribuiscono l’attentato ad un complotto: il fatto è che si trattò di entrambe le cose. Poco dopo le dieci del mattino del 28 giugno 1914, una domenica, le tre automobili del corteo arciducale imboccarono, a bassa velocità, il lungofiume che corre sulla riva destra della Miliacka, e che oggi si chiama Obala Voivoda Stepe, mentre allora era semplicemente il Quai Appel. I sei congiurati, armati di bombe e pistole, si erano schierati, ad intervalli, lungo i cinquecento metri dal ponte Cumuria al Konak, il municipio, dove l’arciduca era atteso per il ricevimento. Il più vecchio, Mohamed Mehmetbasic, stazionava prima del ponte; altri tre, Svietko Popovic, Vaso Ciubrilovic, e Nedeleiko Ciabrinovic, subito dopo; il quinto, Gavrilo Princip, stava duecento metri avanti, vicino al ponte Latino, oggi ribattezzato Principov most; l’ultimo, Trifko Grabez, era davanti al Ponte Imperiale, a due passi dal palazzo municipale. Nell’automobile di mezzo, guidata dal triestino Carlo Cirillo Diviak, viaggiavano Franz Ferdinand e sua moglie, insieme a Potiorek e al conte Harrach. Al passaggio del corteo, Mehmetbasic, Popovic e Ciubri¬lovic esitarono e persero l’attimo propizio. Ciabrinovic lanciò la sua bomba, ma l’autista accelerò bruscamente e l’esplosione investì la terza auto, quella della scorta, facendo otto feriti. L’attentatore cercò di fuggire, gettandosi nel fiume, ma venne catturato, mentre cercava di avvelenarsi. Dopo un primo comprensibile scompiglio, le due automobili superstiti proseguirono a tutta velocità fino al Konak. Probabilmente, proprio questa velocità, oltre alla sorpresa nel vedere l’arciduca illeso, prese in contropiede Princip, che credeva che l’attentato fosse andato a buon fine e che non riuscì ad agire in tempo. Allora, il giovane terrorista decise di allontanarsi, dopo aver notato che anche il sesto attentatore, Grabez, era fuggito. Mentre Princip, seduto in una Kafeehaus, meditava, affranto, sul fallimento del commando da lui guidato, nel municipio di Sarajevo si tenne una cerimonia piuttosto rapida e concitata, anche se l’arciduca ostentava la solita calma imperturbabile e, anzi, avrebbe voluto recarsi all’ospedale per visitare i feriti. Il conte Harrach, però, insistette perché il corteo partisse subito da Sarajevo: pare, quindi, che il percorso bizzarro della vettura di Franz Ferdinand non possa essere ascritto a ragioni legate ad una visita ai feriti decisa improvvisamente. Fatto sta che, inspiegabilmente, ritornati al ponte Latino, la prima vettura proseguì diritta, mentre l’auto che portava la coppia arciducale svoltò a destra, nella Franz Joseph strasse. Harrach si trovava in piedi sul predellino, a proteggere i passeggeri da eventuali altri lanci di bombe, mentre Potiorek, molto arrabbiato, ordinò subito all’autista di invertire la marcia. In questo modo, il phaeton scoperto venne a trovarsi, pressochè immobile, a mezzo metro da Gavrilo Princip, che stava vagando sconsolato e al quale l’occasione non dovette parer vera. Princip sparò due colpi, con la sua Browning 7.65, al collo dell’arciduca e all’addome della contessa: furono entrambi colpi mortali. Questa è la dinamica di uno dei delitti più importanti della storia. Rimangono, però, ancora diversi dubbi sulle ragioni di questo comportamento, apparentemente senza senso, da parte degli attori del dramma: perché Diviak svoltò, lasciando il Quai Appel? Glielo ordinò certamente qualcuno: è impensabile che ciò sia avvenuto su iniziativa di un semplice autista. Potiorek detestava (e non era l’unico a corte) Franz Ferdinand, che considerava troppo filoslavo: fu lui a dare l’ordine, come d’altronde, certamente, diede quello di fare retromarcia, esponendo i passeggeri alla pistola di Princip? Probabilmente, non si saprà mai come andarono davvero le cose. L’unico che avrebbe potuto aggiungere particolari a questo racconto, ossia lo stesso Diviak, è morto nel 1968, senza mai dire mezza parola su Sarajevo. E nulla disse mai sul complotto e sulla verità su Sarajevo neppure Ciubrilovic, il più giovane dei congiurati, anche lui sopravvissuto fino alla fine degli anni Sessanta, a Belgrado. Ironia della sorte, faceva il professore di storia.

La Triplice Alleanza

Una delle ragioni dello scoppio della Grande Guerra, all’indomani dell’attentato di Sarajevo, consiste certamente nel sistema di alleanze ad incastro che, in qualche modo, costrinsero all’impegno bellico i vari contendenti. In realtà, per tutto l’Ottocento e nei primi anni del Novecento, in Europa si andarono tessendo delle reti di relazioni diplomatiche, probabilmente retaggio del sistema di coalizioni dell’età napoleonica, e che si basavano sia su affinità di tipo culturale ed etnico che su ragioni di semplice realismo politico. Nel 1914, erano in vigore due blocchi di alleanze militari, che riunivano uno Francia, Gran Bretagna e Russia e l’altro Germania, Austria-Ungheria ed Italia. Noi, in questa sede, partiremo dall’esame della coalizione militare di cui l’Italia faceva parte, e che prese il nome di “Triplice Alleanza” (in tedesco Dreibund) o, più semplicemente di “Triplice”, da cui l’aggettivo “triplicisti”, che designava coloro i quali parteggiassero per la Germania e l’Austria-Ungheria alla vigilia della guerra. Un’alleanza difensiva a due, tra Germania ed Impero, esisteva già, quando, nel maggio del 1882, anche l’Italia umbertina decise di aderirvi: si trattava di un accordo militare, che prevedeva un impegno reciproco di intervento in caso di aggressione subita da uno dei firmatari. Il regno d’Italia giunse a questa svolta in chiave antifrancese e l’alleanza proseguì sempre con l’evidente intenzione di marginalizzare politicamente la Francia e, soprattutto, il suo espansionismo africano, dall’occupazione della Tunisia (1882) fino alla crisi marocchina del 1911 e all’incidente di Agadir. Il trattato venne ratificato a più riprese, con modifiche e conferme, nel 1887, 1891, 1896, 1902 e 1912. Molto spesso, nel corso di conferenze ed incontri pubblici, mi viene domandato se l’Italia avesse avuto ragione o torto nel mantenersi neutrale nel 1914, quando i suoi alleati scesero in campo: ancora oggi, questo episodio è materia di discussione e rappresenta, evidentemente, una questione in parte aperta. Negli anni cruciali prima dello scoppio della Grande Guerra, ministro degli esteri italiano era San Giuliano, che, per quanto triplicista, indirizzò l’Italia su posizioni defilate, se non filo-intesa, tanto che, in occasione della fine della seconda guerra balcanica, ammonì l’Austria circa un eventuale intervento contro la Serbia. Dopo qualche giravolta, nell’agosto del ’14, a guerra ormai iniziata, San Giuliano dichiarò la neutralità italiana, in virtù degli articoli 4 (dichiarazione di guerra ad una quarta potenza) e 7 (comunicazione preventiva agli alleati delle proprie decisioni) del trattato. Dunque, formalmente, se non eticamente, l’Italia aveva tutte le ragioni di non avallare le scelte austro-tedesche. L’aspetto imbarazzante della politica estera italiana fu, semmai, il mercato delle vacche che si verificò dopo la morte di San Giuliano, nell’ottobre del ’14, in cui l’Italia, rappresentata da Sidney Sonnino e da Salandra, mise all’asta al miglior offerente la propria neutralità o il proprio intervento al fianco dell’Intesa. Va detto che, nonostante le numerose ratifiche della Triplice, Italia ed Austria si guardarono sempre con un po’ di sospetto, fortificando le frontiere e sfruttando cinicamente le situazioni a proprio vantaggio. Ma questo, in fondo, lo facevano un po’ tutti: anche l’Intesa, che, della Triplice fu elemento speculare.

La Triplice Intesa

Nel corso del XIX secolo, oltre alle comuni alleanze, in Europa erano esistite forme più o meno velate di affinità diplomatico-militare, che, se non erano accordi espliciti, rappresentavano, comunque, dei tentativi di mantenere in equilibrio il fragile sistema geopolitico continentale: certamente, dalla metà del secolo, si era delineata una spiccata ostilità tra l’Inghilterra vittoriana e la Russia zarista, culminata in veri e propri episodi bellici, come la guerra di Crimea. In pratica, la prospettiva di espansione verso est dei due imperi aveva dato il via ad una serie di contrasti, che, in certi casi, erano degenerati in scontro aperto e che, comunque, mantenevano alta la tensione tra i due stati. Questa tensione, agli inizi del XX secolo, aveva causato perfino una guerra “per procura”: il conflitto in Manciuria (1904-05), in cui i giapponesi combatterono, in pratica, contro la Russia a nome degli inglesi, che li finanziarono e li foraggiarono ampiamente. D’altra parte, la Russia rischiava di rimanere isolata in Europa, non solo perché vista come ultimo stato assolutista, sopravvissuto all’ondata costituzionale ottocentesca, ma, soprattutto, perché la sostanziale simpatia che si era sviluppata tra Germania ed impero zarista nell’epoca bismarckiana aveva iniziato a scricchiolare, dopo il licenziamento, nel 1890, dell’anziano statista da parte del nuovo Kaiser, Guglielmo II, salito al trono due anni prima. Proprio in seguito a questo raffreddamento dei rapporti tra Germania e Russia, lo Zar si avvicinò alla tradizionale nemica dei tedeschi, ossia la Francia, con cui stipulò un accordo, prima semplicemente diplomatico e poi anche militare (1894). Anche l’Inghilterra, che, al tempo dell’incidente di Fashoda (1898), era stata ad un passo dall’intraprendere azioni militari contro la Francia, nel XX secolo cominciò a mutare atteggiamento, spinta dalla crescente minaccia rappresentata dalla potenza economica e militare della Germania guglielmina: si giunse, così, alla cosiddetta “Entente cordiale”, che, nel 1904, risolse le questioni coloniali tra le due potenze e sottrasse, contemporaneamente, la Francia dall’angosciante isolamento cui era stata costretta dalla sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1871. Quando, nel 1907, anche la Russia appianò i propri contenziosi, soprattutto legati all’espansione in Oriente, con l’impero britannico, per mezzo del trattato di San Pietroburgo, in pratica, nacque un’alleanza a tre, uguale e contraria rispetto a quella che legava Italia, Germania ed Austria-Ungheria: la Triplice Intesa (in inglese e in francese Triple Entente). A questo punto, però, fu la Germania a sentirsi isolata ed accerchiata: probabilmente, questo sentimento di insicurezza e questo senso di soffocamento politico ed economico furono una delle cause efficienti della posizione bellicista dei tedeschi in occasione della cosiddetta “crisi di Luglio”, che portò allo scoppio della guerra e di cui ci occuperemo qui di seguito.

La crisi di luglio

Nella storiografia internazionale, prende il nome di “crisi di luglio” (july crisis) quel periodo che va dall’assassinio di Franz Ferdinand e di sua moglie, a Sarajevo, fino alle reciproche dichiarazioni di guerra, consegnate tra il 28 luglio (Austria-Ungheria alla Serbia) ed il 12 agosto 1914 (Gran Bretagna all’Austria-Ungheria). Si trattò di una fase confusa e convulsa, oltre che tutt’oggi controversa storicamente, di scambi di telegrammi, di dichiarazioni, di ultimatum e di mobilitazioni più o meno generali, che, vista con l’occhio di oggi, ci mostra un’Europa impotente ed incosciente, di fronte alla minaccia sempre più drammaticamente concreta di una conflagrazione militare su vasta scala. Data la complessità, non solo storica, ma anche, in un certo senso, culturale della questione, è forse opportuno scomporre questa sezione delle nostre pillole di Grande Guerra in alcuni diversi capitoli, dedicati ai differenti aspetti di cui è necessario tener conto, se si vuole avere un quadro minimamente attendibile delle dinamiche che portarono allo scoppio del conflitto. La prima cosa che si può certamente dire è che, in un certo senso, durante gli ultimi, frenetici, giorni della crisi di luglio, i meccanismi militari scavalcarono quelli diplomatici e perfino quelli di carattere personale: s’intende, con questo, il fatto che le mobilitazioni procedettero quasi per automatismi e, quando ci si trovò al bivio tra la pace e la guerra, i vertici militari (in particolare Helmuth von Moltke, che comandava il Große Generalstab tedesco e Nikolai Januševič, che era a capo dello Stavka zarista) comunicarono ai rispettivi sovrani il fatto che la mobilitazione (e, di fatto, la guerra) era divenuta inarrestabile. Molto si è detto circa la responsabilità di Guglielmo II nello scoppio della Grande Guerra: secondo il ben noto sistema della “reductio ad unum” semplificativa, diversi storici e, soprattutto, molti manuali scolastici di scarse pretese, oltre alla solita Wikipedia, hanno indicato nell’aggressività del Kaiser la ragione principale del fallimento delle diplomazie alla vigilia della guerra. Si tratta di una valutazione alquanto superficiale, oltre che ingiusta nei confronti della figura storica dell’ultimo Hoenzollern: in realtà, già su questo primo punto è necessario fare chiarezza, a dimostrazione di come tutta la crisi di luglio, in fondo, rappresenti ancora un rebus non del tutto risolto. E’ vero che Guglielmo premette sull’Austria-Ungheria per un’aggressione immediata alla Serbia: questo, però, proprio per risolvere velocemente la questione, prima che la Russia mobilitasse, in modo da mettere i sostenitori russi del panslavismo di fronte ad un fatto compiuto (ricordiamo che Belgrado era vicinissima al confine tra Impero e regno serbo) e mantenere il conflitto entro limiti territoriali e temporali assai ristretti, ossia una sorta di terza guerra balcanica. Quanto allo zar, Nicola II e Guglielmo II erano parenti (Nicola aveva sposato la cugina di Guglielmo, Alessandra d’Assia) e tra loro vi erano rapporti cordiali: subito prima dello scoppio della guerra, essi si scambiarono dei telegrammi affettuosi, in cui entrambi dicevano essere necessario prodigarsi per evitare un conflitto dalle conseguenze imprevedibili. Come conciliare queste dichiarazioni di intenti con quello che, pochi giorni dopo avvenne? La risposta esatta, probabilmente, non l’otterremo mai: tuttavia, pare certo il fatto che, da un lato, contribuirono all’escalation i meccanismi automatici di cui dicevamo prima e, dall’altro, la sottovalutazione, da parte di tutti gli attori del dramma, delle conseguenze delle rispettive azioni. La crisi di luglio fu, dunque, anche una serie di giganteschi equivoci.
Un altro elemento di cui si deve tener conto, per comprendere gli stati d’animo e lo spirito della “crisi di luglio”, è legato ad una sorta di routine cui gli Europei si erano abituati, in materia di omicidi illustri. Non vorrei essere frainteso: non si dice che un delitto come quello di Sarajevo non avesse colpito l’opinione pubblica, riempiendola di raccapriccio. Tuttavia, vi erano stati talmente tanti episodi analoghi, nei decenni immediatamente precedenti il 1914, da porre l’episodio bosniaco in una luce meno folgorante. Insomma, la reazione, tutto sommato abbastanza fatalista, dell’imperatore Franz Josef di fronte all’uccisione del nipote e di sua moglie rifletteva un atteggiamento abbastanza comune, di fronte ad avvenimenti che, in un certo senso, venivano messi in conto dai capi di stato e di governo. Certamente, questo non è sufficiente a giustificare il mese di stallo, di una sorta di drôle de guerre neppure dichiarata, che caratterizzò le diplomazie europee in quel fatale luglio del 1914, però è un dato di cui, fino ad oggi, non si è tenuto il debito conto. D’altra parte, ancora ai nostri giorni, la ricostruzione dell’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 dà adito a diverse interpretazioni e, soprattutto, fa oscillare da una parte all’altra il pendolo della storia. Per questo, per comprendere meglio le reazioni internazionali alla notizia dell’eccidio, bisogna accettare il fatto che l’uccisione violenta di un monarca, di un ministro o di un personaggio pubblico fosse, tutto sommato, abbastanza comune: uomini di stato, sovrani e dinasti, caddero a decine, per mano di attentatori politici, spesso, ma non sempre, anarchici. Solo per fare qualche esempio, lo zar Alessandro II (1881), il presidente francese Carnot (1894), il primo ministro spagnolo Cánovas del Castillo (1897), l’imperatrice Elisabetta d’Austria (1898), re Umberto I (1900), il presidente Usa Mc Kinley (1901), Carlo I di Portogallo (1908), Giorgio I di Grecia (1913) furono alcune tra le vittime illustri di questa autentica ecatombe. La realtà è questa: che l’attentato di Sarajevo agli occhi dell’opinione pubblica di allora non rappresentò qualcosa di particolarmente efferato o di estraneo alla logica del terrorismo tardo ottocentesco e dei primi del Novecento. Per questa ragione, probabilmente, tutto sommato, nessuno si aspettava una reazione esagerata da parte dell’Austria-Ungheria. Anche la reale identità degli attentatori del 28 giugno desta ancora discussioni e dibattiti: lo storico serbo Mile Bjelajac, ad esempio, sostiene la matrice improvvisata dell’eccidio, eseguito da un gruppo di studenti sprovveduti e portato a termine del tutto casualmente da Gavrilo Princip. Di altro avviso sono, viceversa, altri storici, tra cui chi scrive, che vedono la mano dei servizi serbi dietro l’attentato: certamente, d’altronde, fu il colonnello “Apis” a fornire ai congiurati le pistole browning che furono utilizzate a Sarajevo. Tuttavia, ancora mancano prove definitive, in un senso come nell’altro. Come si vede, all’Austria mancava una reale pulsione vendicativa e nemmeno esistevano le prove certe di un coinvolgimento diretto della Serbia nell’eccidio. Qualcosa, però, inceppò i meccanismi diplomatici, precipitando il mondo verso la catastrofe.”