“Non è pazzo colui che perde la ragione, bensì chi tutto ha perduto, tranne essa.”
- K. Chesterton:
Scrittore di multiforme ingegno Eugenio Corti si è cimentato non solo con differenti generi letterali ma non ha esitato anche nell’affrontare strumenti diversi dal romanzo, come il teatro.
L’opera “Processo e morte di Stalin” è infatti una tragedia che, all’epoca, si guadagnò le critiche positive di Mario Apollonio, uno dei maggiori critici e storici italiani di teatro del Dopoguerra, che la definì “una delle più grandi tragedie del Novecento”.
Si tratta probabilmente di una delle opere meno conosciute di Corti, un autore su cui è pesato un vero e proprio ostracismo da parte di ampi settori della cultura italiana.
Scritta nel 1961 l’opera non ebbe fortuna. Anzi. In un clima culturale ormai ammaliato dalle sirene del comunismo, la tragedia riuscì ad ottenere solo una lettura pubblica da parte della compagnia del regista Diego Fabbri e rimase in cartellone solo tredici giorni, attirandosi le critiche sia da parte del Partito Comunista Italiano sia della Democrazia Cristiana.
Eugenio Corti, d’altronde, è sempre stato considerato un irregolare anche all’interno del mondo cattolico e la sua difesa intransigente del “Regno” gli ha inimicato non poche anime tiepide.
In ogni caso da allora, in Italia, l’opera è stata pressochè dimenticata. Non così all’estero, dove la tragedia fu tradotta in russo da alcuni dissidenti che lo fecero circolare tramite samizdat, l’editoria clandestina, e poi in polacco, valendogli, da parte dell’allora governo in esilio a Londra, l’onorificenza di “Cavaliere di Polonia”.
“Processo e morte di Stalin” è un testo che affronta il comunismo con gli occhi di chi, come Corti, ne ha visto i tragici effetti in prima persona.
Corti ha infatti partecipato in qualità di ufficiale dell’ARMIR alla campagna di Russia e, come Don Carlo Gnocchi, ha visto in prima persona la società sovietica. Valgano a titolo di esempio le pagine del libro “Cristo con gli Alpini” ove Don Carlo Gnocchi, uomo provenienti dallo stesso ambiente di Corti, descrive gli incontri con la gioventù sovietica che non si poneva più alcuna domanda di carattere spirituale.
Al di là dell’esperienza personale di Corti, quest’ultimo aveva approfondito il comunismo anche da un punto di vista filosofico e storico ed infatti ogni battuta della tragedia ha un preciso riferimento documentale.
“Processo e morte di Stalin” è una lucida e acuta analisi di quale sia l’errore che sta alla base del comunismo: l’essere una religione che, cercando di realizzare il paradiso in terra e l’uomo nuovo, finisce per distruggere proprio gli uomini giudicati imperfetti.
La genialità di Corti sta nell’aver fatto esprimere tale verdetto ad uno dei “campioni” del comunismo, Iosif Stalin, immaginandolo imputato in un processo ad opera degli alti dirigenti del Partito Comunista che lo processano per aver tradito l’essenza del marxismo-leninismo.
Processo non disinteressato posto che è originato dal fatto che Stalin stava per ordire un’altra delle purghe in cui le prime vittime sarebbero stati i membri e dirigenti del partito.
In ogni caso dinnanzi alle accuse dei suoi compagni Stalin si oppone rivendicando la sua innocente coerenza: «Io non sono che un pratico, un realizzatore, nessuno seguì con più coerenza di me gli insegnamenti di Lenin».
Ecco perché l’opera di Corti non ha avuto successo. Tesi troppo controcorrente. L’ha riconosciuto lo stesso autore: «I comunisti, è vero, avevano già dato il via alla destalinizzazione, ma lì, nel mio lavoro, c’era un attacco frontale al comunismo in sé: Stalin e la sua politica di sterminio visti come logica ed estrema conseguenza del pensiero di Lenin, non come deviazione».
In un periodo in cui il comunismo è un argomento di cui nessuno parla – a parte Berlusconi – e in cui opere come Katyn e Soviet Story sono state silenziate quest’opera va riletta non solo come documento storico ma anche come vaccino contro la tentazione di costruire quei “sistemi tanto perfetti che non ci sarebbe bisogno d’essere buoni” come avvisava T.S. Elliot
Sulle premesse del comunismo – e di ogni altra ideologia – s’incentra il cuore dell’attacco di Corti: a un mondo utopistico non può accedere un abitante indegno. «Abbiamo trasformato l’ambiente – dice un corrucciato Stalin – e ciononostante gli uomini ostinatamente si rifiutano di trasformarsi; ecco: sono loro, gli uomini, che non rispondono. Tutta quanta la restante materia docilmente si trasforma: invece la materia uomo resiste caparbia. È lì dunque, sugli uomini, che dobbiamo agire con maggior energia, e senza più perdere tempo. Senza più perdere tempo».
C’è infatti sempre un errore che perseguita i progetti del mondo senza macchie, un fattore che non permette la perfetta realizzazione dell’utopia ossia l’uomo con tutte le sue virtù e i suoi difetti.
La violenza è l’inevitabile corollario delle premesse dell’utopia. Quando Malenkov, Beria, Krusciov e gli altri membri del Politburò lo processano con l’accusa di aver tradito il comunismo per aver mandato a morte tanti compagni che avevano creduto nella rivoluzione, Stalin sbotterà in una delle frasi più significative dell’opera: «Cosa vorreste? Essere anticristi verso tutti gli altri, e invece cristiani fra voi? Voi pretendete d’applicare la nostra morale agli altri, mentre invece, quando si tratta di voi, vorreste applicare il principio oscurantista: “Non ti è lecito uccidere il tuo fratello!”. E perché non è lecito? Chi lo dice? Dio lo dice: lo sapete o no? E vorreste tornare sotto il giogo di Dio, voi, moderni uomini liberi?».
Lo Stalin di Corti è infatti la personificazione della più antica di tutte le tentazioni umane: la sfida a Dio. Per questo è un personaggio eterno e attuale anche se alla fine neppure Stalin riesce a essere all’altezza del compito che s’è assegnato. Corti ce lo presenta in tutta la maestosità del dittatore feroce che annusa l’avvicinarsi dei nemici, circondato ma mai domo («Sapete che cosa fa il contadino coi lupi? Li stermina. Vedremo chi si stancherà prima, se io di ammazzarli, o loro di essere ammazzati»). Ma anche stanco, acciaccato, nostalgico, che vive solo «come un lebbroso, nella mia stessa casa».
Un vecchio tormentato dai ricordi e dai rimorsi, che ha come unici interlocutori il busto muto di Lenin, cui si rivolge in incessanti monologhi. Un uomo che – e sono fatti accertati – ha sacrificato la sua famiglia, una moglie suicida, un figlio rinnegato e suicida mentre era in un lager nazista, tutto in nome dell’utopia.
È la tragedia di un popolo, anzi di tanti popoli, e in primo luogo la tragedia di un uomo che, come il Capaneo dantesco impreca contro Dio dal fondo dell’abisso che si è costruito da solo.
In definitiva “Processo e morte di Stalin” è un’opera senza tempo da leggere e meditare.