Il cardinale Scola: “L’Expo non può essere solo una fiera, è l’ora di riscoprire l’anima della città”
Parla l’arcivescovo di Milano: “Siamo una metropoli europea, non ancora consapevole di esserlo. Questa è la nostra occasione. Non temo gli investitori stranieri: bene se un thailandese compra il Milan ma i manager devono capire di calcio”
di ROBERTO RHO
MILANO. “Milano è sempre più una metropoli europea, ma non ha ancora preso consapevolezza di esserlo. L’Expo che si apre oggi può essere un’occasione per farlo”. È, secondo il cardinale Angelo Scola, la grande occasione che Milano ha di fronte a sé in questi sei mesi in cui sarà il centro del mondo. Dentro questa consapevolezza, o meglio, dentro la capacità di costruirla, c’è tutto: i cambiamenti economici e sociali che la città sta attraversando, la “frammentazione ” – la cui principale evidenza sono le situazioni di grave emarginazione che segnano, a macchia di leopardo, la metropoli dei grattacieli e della moda – ma anche la vivacità culturale, la vitalità della società civile, la generosità dell’associazionismo. In tre parole, “l’anima di Milano”.
Ma cominciamo dal principio, cardinal Scola. Che Milano troveranno i milioni di visitatori che vi si accosteranno, da oggi, per l’Expo?
“Come ogni altra metropoli europea Milano è in una fase di grande evoluzione. Non è più la città delle “fabbriche” di stampo fordiano, la finanza negli ultimi anni ha assunto forme più dimensionate e nello stesso tempo sono emersi e cresciuti quei fenomeni – la moda, il design, la comunicazione – che inducono taluni a definirla “città smart”. Ma dal punto di vista sociale e culturale Milano ha una doppia faccia. Ci sono, disseminate per tutto il tessuto urbano, situazioni di forte emarginazione che contrastano pesantemente con la modernità di uno skyline sempre più proiettato nel futuro”.
Emarginazione e povertà che si sono parecchio aggravate negli anni della Grande Crisi.
“Sì, ma la storia milanese con la sua proverbiale generosità e la capacità di tessere un intreccio straordinario tra famiglia, lavoro e impegno sociale non è venuta meno con il sopraggiungere della crisi e di questi grandi cambiamenti antropologici. A Milano l’associazionismo, il volontariato, la capacità di spendersi per gli altri sono vivi. E il valore della città si manifesta anche nell’eccellenza delle sue università e delle sue numerose istituzioni culturali, artistiche e musicali. Milano, insomma, è sempre più una metropoli, anche se non ha ancora la piena consapevolezza di esserlo”.
Questa consapevolezza che ancora manca non somiglia un po’ alla capacità di governarli e di pilotarli, questi mutamenti che stiamo attraversando?
“Guardi, la prima caratteristica di una comunità cittadina dinamica è il realismo. Se queste mutazioni ci sono state, bisogna partire da lì. E Milano ha le carte per riuscire nell’impresa di governarle”.
Come si fa?
“È innanzitutto una questione di metodo. Mi rifaccio a un’immagine di Papa Francesco. Parlando della sua Buenos Aires, l’ha descritta come un grande poliedro. Tante facce, una diversa dall’altra, ma solidamente unite tra di loro. Ecco, una grande città rispetta le diversità ma sa tenerle unite. A chi tocca questo compito? Simultaneamente ai singoli cittadini e alle famiglie, ai corpi intermedi e alle istituzioni. Compresa la Chiesa, che è favorita in questo lavoro dalla sua idea di universalità. Io vedo molti segnali positivi in questa direzione”.
I grattacieli e i palazzi storici del centro venduti agli investitori orientali, la Pirelli, l’ultima grande azienda industriale della città, ai cinesi. Perfino le squadre di calcio hanno o avranno proprietà internazionali. Milano non rischia di smarrire la sua identità?
“Non sono un tecnico, ma qui non si tratta di grabbing, cioè di arraffare. È forse una conseguenza del fenomeno, spesso contraddittorio, della globalizzazione della finanza. È compito delle istituzioni, delle associazioni industriali e dei sindacati vigilare con rigore affinché questi investitori sappiano inserirsi nel contesto milanese e lombardo e le persone che lavorano in queste attività continuino ad avere occasioni di crescita e di sviluppo. Per esempio, possano partecipare agli utili di impresa. In altre parole: può anche andar bene se un thailandese investe nel Milan, ma io che sono milanista e soffro per le sconfitte della mia squadra, vorrei che manager e allenatore capissero di calcio”.
Dov’è finita la “buona borghesia” milanese che deteneva la proprietà delle grandi imprese, delle squadre di calcio, che animava la vita civile, muoveva la solidarietà, promuoveva l’arte e la cultura?
“Oggi si vede e si sente di meno, e un po’ si lo capisce: forse il ridursi dei mezzi a causa della crisi ha prodotto questo risultato. Però la tenaglia dell’individualismo gioca un ruolo pesante anche a questo livello”.
Torniamo al tema degli stranieri e dell’integrazione. Milano, che pure è una frontiera avanzata sul tema dei diritti, non ha ancora un luogo di culto per i musulmani che, dopo i cattolici, sono la comunità più numerosa.
“La libertà di culto non esiste se non esistono luoghi di culto adeguati. Ma questo criterio va incarnato nella realtà: chi sono i soggetti che vogliono costruire un luogo di culto, con quali denari, quali attività vi si svolgeranno? Ho l’impressione che la questione si incagli su questi aspetti pratici. E poi bisogna che il nuovo sappia interloquire con la grande tradizione cristiana dei nostri luoghi. Sotto il profilo del dialogo interreligioso, dell’accoglienza, della collaborazione la Chiesa ha fatto tanto. Ci vogliono apertura e altrettanto equilibrio”.
Che non sempre si avvertono nel dibattito pubblico, dove spesso, al contrario, si ha la sensazione che sulla paura e sull’insicurezza dei cittadini si cerchino di lucrare consensi.
“La paura non va strumentalizzata, ma va capita. È necessario un importante lavoro educativo. La scuola, la società civile, gli oratori lo fanno. La politica dovrebbe assecondarlo, promuoverlo. E tutti dovrebbero capire che la Chiesa, in nome della carità, affronta i bisogni immediati. Poi c’è la questione europea: la domanda sul futuro del nostro continente deve avere assoluta priorità. È urgente l’assunzione europea dei temi dell’accoglienza e dell’integrazione. Per dirla in uno slogan: in Europa meno tecnocrazia, più umanità”.
A che punto è il processo di integrazione a Milano?
“Ci sono buone pratiche e molti esempi di integrazione efficace. Penso a via Padova. Lentamente il processo è in crescita. Le reazioni rabbiose ed emarginanti vanno sconfitte, il modo migliore per farlo è circondarle di buone esperienze”.
L’Expo. Non ha la sensazione che il tema “alto” della nutrizione del pianeta sia rimasto soffocato dalle questioni degli appalti, dei cantieri, della corruzione?
“Mi auguro che l’Expo non sia soltanto una grande fiera di prodotti e tecniche agroalimentari, e che emergano i contenuti, che sono stupendi e si prestano benissimo alla riscoperta dell’anima di Milano. Se sapremo interloquire a questo livello con i visitatori l’Expo lascerà un’eredità culturale di notevole valore”.
Ma esiste ancora, quest’anima di Milano, cardinal Scola?
“L’anima è il fattore vitale della persona. Anche una città viva ha bisogno di un’anima. Occorre innovare ma non perdere quella tradizione di famiglia, lavoro, generosità e apertura di cuore che fa parte del patrimonio genetico di Milano. Per questo mi lasci dire che i milanesi non debbono smettere di cercare Dio. Per chi pensa di non credere non viene meno la ricerca del senso della vita. Terreno sul quale possiamo trovarci tutti, e lavorare insieme. Custode e garante dell’anima di Milano è la Madonnina del nostro Duomo. In copia identica sarà posta al cuore di Expo proprio per ricordare quest’anima a tutto il mondo”.