«Laudato si’»: è la proposta della conversione ecologica contro la tecnocrazia
Doveva essere resa pubblica il 18 giugno, ma ieri una copia dell’enciclica «Laudato si’» è stata pubblicata dall’Espresso online. Nel tardo pomeriggio il portavoce vaticano padre Federico Lombardi precisava che quella pubblicata dall’Espresso non era ancora la versione definitiva, ma altre fonti indicano che se correzioni ci sono state successivamente sono secondarie e non intaccano la struttura dell’enciclica. Che quindi qui vi presentiamo in sintesi.
Formalmente datata 24 maggio 2015 la seconda enciclica di Papa Francesco, «Laudato si’», a oggi la più lunga enciclica pubblicata da un Pontefice, propone in sei capitoli un vasto affresco della crisi del mondo contemporaneo, di cui la crisi ecologica è insieme segno ed effetto. L’enciclica rivendica la sua appartenenza al «Magistero sociale della Chiesa» (n. 15), ma precisa opportunamente la diversa natura dei due elementi che contiene: un «percorso etico e spirituale» di natura dottrinale e una breve rassegna preliminare di quelli che il Papa e gli esperti che lo hanno assistito considerano «i migliori frutti della ricerca scientifica oggi disponibile» (ibid.). A proposito di questo secondo elemento, il Papa tiene a precisare che «ci sono discussioni, su questioni relative all’ambiente, nelle quali è difficile raggiungere un consenso. Ancora una volta ribadisco che la Chiesa non pretende di definire le questioni scientifiche, né di sostituirsi alla politica, ma invito ad un dibattito onesto e trasparente» (n. 188).
L’enciclica si apre con un’introduzione, in cui Francesco ribadisce che la preoccupazione della Chiesa per la crisi ecologica non inizia con il suo pontificato. Elenca gli interventi di san Giovanni XXIII, del beato Paolo VI, di san Giovanni Paolo II – cui si deve l’espressione «conversione ecologica» – e di Benedetto XVI, la cui enciclica del 2009 «Caritas in Veritate» è un punto di riferimento costante della «Laudato si’», e di cui si ricorda fin dall’inizio l’affermazione secondo cui «il degrado della natura è strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana» (n. 6). In chiave ecumenica, Francesco ricorda anche gli appassionati interventi sul tema del Patriarca Ecumenico ortodosso Bartolomeo. E rende omaggio all’«ecologia integrale» di san Francesco d’Assisi, che «non può essere disprezzata come un romanticismo irrazionale» e «richiede apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte e della biologia e ci collegano con l’essenza dell’umano» (n. 11).
1. Il primo capitolo è una rassegna di conclusioni scientifiche sulla crisi ecologica, alcune largamente condivise e altre controverse. Il Papa parte da una nozione molto diffusa oggi tra i sociologi, quella della «rapidizzazione» o accelerazione, cioè «l’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro» (n. 18) che ci trasmettono la sensazione costante di non avere abbastanza tempo. Caduta la «fiducia irrazionale nel progresso» (n. 19) tipica di secoli passati, oggi molti avvertono che l’accelerazione sociale si manifesta anche come degrado dell’ambiente. Francesco ne elenca cinque aspetti. Il primo è l’inquinamento e la cattiva gestione di quantità sempre più immani di rifiuti, che trasformano la Terra in un «immenso deposito di immondizia» (n. 21) e si legano a una più generale «cultura dello scarto» che colpisce anche gli esseri umani. L’inquinamento, secondo l’enciclica, determina anche «un preoccupante riscaldamento del sistema climatico» (n. 23) che potrebbe portare a «cambiamenti climatici inauditi e a una distruzione senza precedenti degli ecosistemi» (n. 24). Il testo adotta la teoria secondo cui il fenomeno è reale e deriva in gran parte dalla «grande concentrazione di gas serra (…) dovuta all’attività umana», anche se precisa che allo stato attuale della ricerca non è possibile «attribuire una causa scientificamente determinabile ad ogni fenomeno» (n. 23).
Il secondo aspetto è la crisi dell’acqua, condizionata da numerosi fattori politici ed economici – che rischiano sempre di più di provocare guerre – ma dovuta anche all’«abitudine di sprecare e buttare via [che] raggiunge livelli inauditi» (n. 27). Il terzo è la perdita di biodiversità e l’estinzione di specie animali e vegetali, le quali non solo «contengono geni che possono essere risorse-chiave» (n. 32) per l’umanità ma, per causa nostra, «non daranno gloria a Dio con la loro esistenza» (n. 33). La tutela della biodiversità è un dovere e un buon investimento per il futuro: ma bisogna diffidare di proposte, come quella della «internazionalizzazione dell’Amazzonia», che sembrano ragionevoli e nobili ma nascondono ideologie o «interessi economici» inconfessati (n. 38). Il quarto aspetto è il deterioramento della qualità della vita umana, anzitutto con la «smisurata e disordinata crescita di molte città che sono diventate invivibili» (n. 44). Ma Francesco cita anche i media e Internet «onnipresenti», che «non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza» (n. 47). Il «rumore dispersivo dell’informazione» è «una specie di inquinamento mentale» e l’uso maniacale di Internet «genera spesso un nuovo tipo di emozioni artificiali, che hanno a che vedere più con dispositivi e schemi che con le persone e la natura», causando «una profonda e malinconica insoddisfazione nelle relazioni interpersonali» (ibid.).
Infine, il quinto aspetto della crisi ecologica è la presenza planetaria di «esclusi» globali che di fatto costituiscono «la maggior parte del pianeta, miliardi di persone» (n. 49). Per far fronte alla loro presenza, «invece di risolvere i problemi dei poveri e pensare a un mondo diverso» alcuni propongono «la riduzione della natalità» (n. 50). «Non mancano pressioni internazionali sui Paesi in via di sviluppo che condizionano gli aiuti economici a determinate politiche di “salute riproduttiva”», dimenticando in nome dell’ideologia che «la crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale» (ibid.). A patto, beninteso, che la solidarietà sostituisca una logica fondata esclusivamente su «una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto» (n. 56). Se non si supera questa logica, saranno inevitabili «nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni» (n. 57) e anche con «un’ecologia superficiale e apparente, che consolida un certo intorpidimento e una spensierata irresponsabilità» (n. 59) e talora degenera in un ecologismo ideologico per cui «la specie umana […] può essere solo una minaccia e compromettere l’ecosistema mondiale, per cui conviene ridurre la sua presenza sul pianeta» (n. 60). Concludendo il capitolo, il Papa ripete ancora una volta che «su molte questioni concrete la Chiesa non ha motivo di proporre una parola definitiva e capisce che deve ascoltare e promuovere il dibattito onesto tra gli scienziati, rispettando le diversità di opinione» (n. 61).
2. Il secondo capitolo, pure inserito in un’enciclica esplicitamente non rivolta soltanto ai cristiani,mostra il fondamento biblico dell’ecologia integrale. Il Papa afferma che scienza e religione devono mantenere un «dialogo intenso e produttivo per entrambe» e che non è accettabile la posizione di chi considera la religione «una sottocultura che dev’essere semplicemente tollerata» (n. 62). Francesco ripercorre dunque il cammino della sapienza biblica sull’armonia originaria fra l’uomo e il creato, la sua rottura che «è il peccato» (n. 66) e la «riconciliazione universale» (ibid.) che Dio propone prima attraverso i profeti, poi con la rivelazione definitiva di Gesù Cristo. Certamente, afferma il Pontefice, l’invito di Dio nel libro della Genesi a «soggiogare la terra» non va inteso come incitamento alla distruzione o allo «sfruttamento selvaggio» della natura, perché lo stesso libro sacro invita a «“coltivare e custodire” il giardino del mondo» (n. 67), dunque a prendersene cura con amore e rispetto.
L’insegnamento biblico ammonisce, contro ogni tentazione panteista, che «non possiamo sostenere una spiritualità che dimentichi Dio onnipotente e creatore. In questo modo, finiremmo per adorare altre potenze del mondo, o ci collocheremmo al posto del Signore» (n. 75). Così «il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura» e «non le ha più attribuito un carattere divino» (n. 78). Ha anche messo in luce il ruolo unico dell’uomo, il quale, «benché supponga anche processi evolutivi, comporta una novità non pienamente spiegabile dall’evoluzione di altri sistemi aperti» (n. 81). Tutte le creature sono «lettere» – secondo l’espressione di san Giovanni Paolo II – del libro di Dio (n. 85), e le altre creature «avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune che è Dio» (n. 83). Mai, nel valorizzare le altre creature, si dovranno «equiparare tutti gli esseri viventi e togliere all’essere umano quel valore peculiare che implica allo stesso tempo una tremenda responsabilità» o adottare prospettive di «divinizzazione della terra». «Si avverte a volte l’ossessione di negare alla persona umana qualsiasi preminenza, e si porta avanti una lotta per le altre specie che non mettiamo in atto per difendere la pari dignità fra gli esseri umani» (n. 90), con un grado notevole di «incoerenza» (n. 91).
Parlare della Terra come «eredità comune» implica pure ricordare che il diritto alla proprietà privata non è mai stato riconosciuto dalla tradizione cristiana «come assoluto o intoccabile»: è un diritto, ma soprattutto san Giovanni Paolo II, in tre diverse encicliche, ne ha sottolineato la «funzione sociale» (n. 92). Tutto questo assume il suo pieno significato nella consapevolezza che «il destino dell’intera creazione passa attraverso il mistero di Cristo, che è presente fin dall’origine» (n. 99). La regalità di Cristo è «signoria universale» su tutto il creato, «misteriosamente» collegato al Signore e «gli stessi fiori del campo e gli uccelli, che Egli contemplò ammirato con i suoi occhi umani, ora sono pieni della sua presenza luminosa» (n. 100).
3. Il terzo capitolo presenta la radice umana della crisi ecologica, le cui cause fanno riferimento al relativismo e alla tecnocrazia. Il dominio tecnocratico era un grande tema dell’enciclica di Benedetto XVI «Caritas in veritate», che qui è ripetutamente citata. La Chiesa non condivide la diffidenza acritica di un certo ecologismo verso la tecnologia che, «ben orientata, è in grado non solo di produrre cose realmente preziose per migliorare la qualità della vita dell’essere umano»: «è anche capace di produrre il bello», come mostrano le migliori creazioni del design e anche «preziose opere pittoriche e musicali ottenute mediante il ricorso ai nuovi strumenti tecnici» (n. 103). E in ogni forma di bellezza «si compie il salto verso una certa pienezza propriamente umana» (ibid.).
Ma la tecnologia ha anche «un tremendo potere», come mostra il suo grande spiegamento «ostentato dal nazismo, dal comunismo e da altri regimi totalitari al servizio dello sterminio di milioni di persone» (n. 104). Oggi il paradigma tecnocratico si sta globalizzando e considera il mondo intero come «realtà informe totalmente disponibile alla sua manipolazione» (n. 106) e al suo «potere globalizzante e massificante» (n. 108). «Il paradigma tecnocratico tende ad esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica»: nella prima, «la finanza soffoca l’economia reale»; nella seconda, pochi poteri forti cercano di emarginare ogni resistenza (n. 109). Francesco torna sul tema dell’accelerazione, indicandola come strumento del dominio tecnocratico. «L’accumularsi di continue novità consacra una fugacità che ci trascina in superficie in un’unica direzione. Diventa difficile fermarci per recuperare la profondità della vita. Se l’architettura riflette lo spirito di un’epoca, le megastrutture e le case in serie esprimono lo spirito della tecnica globalizzata, in cui la permanente novità dei prodotti si unisce a una pesante noia» (n. 113).
Alla radice di tutto questo c’è un «antropocentrismo deviato» (n. 118), che non è la vera signoria dell’uomo sulle altre creature insegnata dalla Bibbia, ma un «eccesso», un «sogno prometeico di dominio sul mondo» che ha anche «provocato l’impressione che la cura della natura sia cosa da deboli» (n. 116). Occorre peraltro vigilare perché la critica di questo errato antropocentrismo non generi per reazione un «biocentrismo» ugualmente sbagliato. «Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia» e il biocentrismo ecologista «non solo non risolverà i problemi, bensì ne aggiungerà altri» (n. 118). Un indizio sicuro che il biocentrismo è all’opera è la «giustificazione dell’aborto»: non è credibile proporre «l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano, che a volte sono molesti o importuni, quando non si dà protezione a un embrione umano, benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà» (n. 120). E dietro l’«antropocentrismo deviato» c’è, come Benedetto XVI già aveva denunciato, la «cultura del relativismo» (n. 123). Recuperando «qualcosa dalla lunga tradizione monastica», Francesco invita anche a vivere il lavoro come preghiera: «tale maniera di vivere il lavoro ci rende più capaci di cura e di rispetto verso l’ambiente, impregna di sana sobrietà la nostra relazione con il mondo» (n. 126).
Al termine del capitolo, il Papa affronta alcune questioni particolari, rimandando al «Catechismo della Chiesa Cattolica». Questa, ribadisce, non condanna le sperimentazioni sugli animali, se «si mantengono in limiti ragionevoli e contribuiscono a curare e salvare vite umane» (n. 130). Né condanna gli organismi geneticamente modificati e il loro uso nell’agricoltura, pur studiandone i rischi, che però «non vanno sempre attribuiti alla tecnica stessa, ma alla sua inadeguata o eccessiva applicazione» (n. 133). Certo, nel caso specifico dei «cereali transgenici» alcuni riscontrano «difficoltà che non devono essere minimizzate», sia sanitarie sia economiche (n. 134). «D’altro canto, è preoccupante il fatto che alcuni movimenti ecologisti difendano l’integrità dell’ambiente, e con ragione reclamino dei limiti alla ricerca scientifica, mentre a volte non applicano questi medesimi princìpi alla vita umana. Spesso si giustifica che si oltrepassino tutti i limiti quando si fanno esperimenti con embrioni umani vivi. Si dimentica che il valore inalienabile di un essere umano va molto oltre il grado del suo sviluppo» (n. 136).
4. Il quarto capitolo propone i principi di un’ecologia integrale, che deve avere tre dimensioni: una ambientale – e insieme economica e sociale –, una culturale e una della vita quotidiana. L’ecologia ambientale considera tutte le creature che vivono in uno spazio determinato come un sistema, «buono e mirabile in se stesso per il fatto di essere una creatura di Dio» così come lo sono le singole creature sue componenti (n. 140). Il sistema però comprende anche i «contesti umani» (n. 141) e «lo stato di salute delle istituzioni», a partire dal «gruppo sociale primario, la famiglia» (n. 142). L’ecologia culturale insegna che, «insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugual¬mente minacciato» (n. 143) e che va protetto, che si tratti di opere d’arte o delle ricchezze tradizionali delle nazioni e dei popoli. «La visione consumistica dell’essere umano, favorita dagli ingranaggi dell’attuale economia globalizzata, tende a rendere omogenee le culture e a indebolire l’immensa varietà culturale, che è un tesoro dell’umanità» (n. 144). Infine, l’ecologia della vita quotidiana afferma che «gli ambienti in cui viviamo influiscono sul nostro modo di vedere la vita, di sentire e di agire», per il meglio o per il peggio: e oggi in un ambiente «disordinato, caotico o saturo di inquina¬mento visivo e acustico, l’eccesso di stimoli mette alla prova i nostri tentativi di sviluppare un’iden¬tità integrata e felice» (n. 147), danneggiati anche dalla «sensazione di soffocamento prodotta dalle agglomerazioni residenziali e dagli spazi ad alta densità abitativa» (n. 148).
Ad architetti e urbanisti il Papa ricorda che «non basta la ricerca della bellezza nel progetto, perché ha ancora più valore servire un altro tipo di bellezza: la qualità della vita delle persone» (n. 150). Questa è legata anche ai trasporti: «molti specialisti concordano sulla necessità di dare priorità ai trasporti pubblici», per ridurre ingorghi e inquinamento, ma questa soluzione non è realistica «senza un miglioramento sostanziale di tali trasporti, che in molte città comporta un trattamento indegno delle persone a causa dell’affollamento, della scomodità o della scarsa frequenza dei servizi e dell’insicurezza» (n. 153). Infine – ma non è certo l’aspetto meno importante – l’ecologia umana implica anche «la necessaria relazione della vita dell’essere umano con la legge morale iscritta nella sua propria natura» (n. 155), secondo un cruciale insegnamento di Benedetto XVI che Francesco richiama esplicitamente. Rispettare la natura umana significa pure «apprezzare il proprio corpo nella sua mascolinità e femminilità»: con un trasparente riferimento alla teoria del gender, il Papa afferma che «non è sano un atteggiamento che pretenda di cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa» (n. 155). Anche queste, come il disprezzo dei poveri e delle generazioni future, cui si lascia in eredità un ambiente poco vivibile, sono manifestazioni di una nozione assente o errata del bene comune.
5. Il quinto capitolo propone linee di orientamento e di azione, introdotte da un «proviamo» (n. 163) che ne mostra il carattere problematico nell’attuale contesto delle organizzazioni internazionali, di cui il testo passa in rassegna documenti, sottolineandone aspetti positivi pur notando come per altro verso essi «non hanno risposto alle aspettative» (n. 166) a causa di vari condizionamenti ideologici e politici. «Non si può pensare a ricette uniformi, perché vi sono problemi e limiti specifici di ogni Paese e regione. È vero anche che il realismo politico può richiedere misure e tecnologie di transizione» (n. 180): e tuttavia qualcosa si può fare in diversi settori, prendendo decisioni condivise e trasparenti. Non si tratta per principio di «opporsi a qualsiasi innovazione tecnologica che consenta di migliorare la qualità di vita di una popolazione» ma di tenere fermo che «la redditività non può essere l’unico criterio» (n. 187) e che «la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia» (n. 189). Come aveva visto Benedetto XVI nella «Caritas in veritate», «la crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo» (ibid.). Rileggendo Benedetto XVI, dobbiamo porre attenzione al fatto che lo stesso «discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia» (n. 194).
Lo aveva affermato Papa Ratzinger: quando alla ragione cognitiva, misurata dal vero, si sostituisce una «razionalità strumentale» misurata dall’utile (n. 195) la politica e l’economia, anziché collaborare secondo il principio di sussidiarietà, entrano in conflitto e «alcuni settori economici esercitano più potere dello Stato stesso» (n, 196). Un segno di questa tecnocrazia è il tentativo di emarginare e discriminare la religione, che si vorrebbe escludere dal «dibattiti pubblico» in nome di una nozione totalitaria della scienza (n. 199).
6. Di grande densità teologica e spirituale è il sesto capitolo, ampiamente ispirato a un teologo prediletto da Francesco come già da Benedetto XVI, Romano Guardini. Il teologo tedesco di origine italiana aveva già denunciato il rischio spirituale di una tecnocrazia dove l’essere umano «accetta gli oggetti ordinari e le forme consuete della vita così come gli sono imposte dai piani razionali e dalle macchine normalizzate e, nel complesso, lo fa con l’impressione che questo sia ragionevole e giusto» (n. 203). La tecnocrazia non si limita più al mero dominio: pretende il consenso, determinando confusione, «precarietà e insicurezza» (n. 204). Per ribellarsi a questa situazione è indispensabile cambiare il proprio stile di vita. «Educazione ecologica» non può essere uno slogan: parte dal «coltivare solide virtù» (n. 211) attraverso il sacrificio, la rinuncia, i piccoli sforzi che si apprendono in famiglia – a partire dalla buona educazione, che è pure educazione a non sprecare – e anche una «adeguata educazione estetica» (n. 215). Il riferimento all’estetica di fronte alla gravità dei problemi potrebbe sembrare incongruo. Ma «quando non si impara a fermarsi ad ammirare ed apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scru¬poli» (ibid.).
Francesco cita una frase dell’omelia di Benedetto XVI per l’inizio del suo pontificato: «i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» (217). Qui c’è il senso profondo della conversione ecologica, che è quello di ogni vera conversione. «La spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di godere con poco. È un ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a gustare le piccole cose, di ringraziare delle possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo. Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione di piaceri» (n. 222). La sobrietà ha goduto di cattiva stampa negli ultimi secoli, nota Francesco: ma va rilanciata nell’ascetica individuale come anche nella vita civile e politica, dove può diventare principio di concordia e solidarietà civile. «L’amore pieno di piccoli gesti, di cura reciproca, è anche civile e politico» (n. 231). Ai politici Francesco ricorda ancora una volta che, per chi la riconosce e l’accoglie, la vocazione politica «fa parte della sua spiritualità, che è esercizio della carità, e che in tal modo matura e santifica» (n. 231).
Naturalmente, per i politici come per tutti gli altri, rimane centrale la vita spirituale attraverso i sacramenti e in particolare l’Eucarestia. A proposito di quest’ultimo, il Papa ricorda pure la valenza insieme ecologica e spirituale del riposo della domenica. «Il riposo è un ampliamento dello sguardo che permette di tornare a riconoscere i diritti degli altri. Così, il giorno di riposo, il cui centro è l’Eucaristia, diffonde la sua luce sull’intera settimana» (n. 237). In unione con la Trinità, con Maria Regina che è anche regina del creato, e in marcia insieme a tutto l’universo verso un compimento escatologico. Per questo, a conclusione dell’enciclica, Francesco innalza la lode a Dio cui chiede: «Riversa in noi la forza del tuo amore affinché ci prendiamo cura della vita e della bellezza» (n. 246).