Emergenza immigrazione. Dalla Siria all’Eritrea, le fabbriche dei disperati in fuga

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Emergenza immigrazione. Dalla Siria all’Eritrea, le fabbriche dei disperati in fuga

Settembre 2, 2015 Rodolfo Casadei

Così le guerre civili, i maldestri interventi occidentali e il fallimento delle indipendenze post-coloniali hanno trasformato troppi paesi in inferni sulla Terra

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Anticipiamo un articolo tratto dal numero di Tempi in edicola da giovedì 3 settembre (vai alla pagina degli abbonamenti) – Le statistiche di Frontex, l’agenzia europea che si occupa della sicurezza delle frontiere dell’Unione, non sono precisissime, ma rendono l’idea. Negli ultimi quattro anni le nazionalità dei migranti illegali che arrivano in Europa attraversando il Mediterraneo o passando per i Balcani sono sempre le stesse, nella classifica al massimo si scambiano di un posto o due. Al primo posto c’è la Siria, seguita dall’Afghanistan oppure dall’Eritrea a seconda dell’annata, poi ci sono Somalia e Nigeria. Il fenomeno parzialmente nuovo del 2015, a parte l’aumento del numero assoluto dei profughi, è il flusso significativo proveniente dall’area Senegal-Gambia-Guinea-Mali. Alla fine di luglio risultavano arrivate in Europa in modo irregolare 338 mila persone, quasi il triplo di quelle registrate l’anno scorso (123.500).

Cosa dicono questi numeri? Prima di tutto che l’emergenza migratoria è il prodotto di interminabili guerre civili che si combattono in Africa e in Asia. Se si sommano insieme i profughi di nazionalità siriana, afghana, eritrea, somala e irachena, si arriva al 70 per cento circa del totale dei 338 mila migranti censiti da Frontex. La crisi siriana, la più recente, è quella che produce il maggior numero di fuggitivi: fra un terzo e la metà degli arrivi di quest’anno. Si tratta sia di espatriati “freschi”, che hanno abbandonato il loro paese di origine nel corso dell’anno a causa dell’intensificarsi dei combattimenti nell’Idlib e nella regione di Aleppo, sia di siriani che si erano rifugiati da tempo in Turchia e si sono stancati di aspettare la fine del conflitto o la risposta dell’agenzia Onu per i rifugiati alla loro richiesta di riconoscimento dello status di profughi e di trasferimento in Occidente.

L’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) ha definito l’esodo dei siriani «il più grande movimento di popolazione dalla fine della Seconda Guerra mondiale»: 4 milioni di profughi all’estero e 8 milioni di sfollati interni su una popolazione totale di 23 milioni di abitanti. Europa e Stati Uniti hanno pensato più ad alimentare il conflitto, schierandosi con una parte contro l’altra, che a favorire il compromesso e un armistizio, e questi sono i risultati.

Gli altri quattro paesi che forniscono il grosso dei migranti illegali (Afghanistan, Eritrea, Somalia e Iraq) hanno visto, per quanto riguarda le loro crisi, nell’ultimo quarto di secolo alternarsi interventi di diplomazia internazionale, missioni di caschi blu dell’Onu, interventi militari della Nato o di coalizioni a guida anglo-americana. I risultati sono deprimenti. In Afghanistan un intervento militare Usa-Nato che dura da quasi 14 anni e che è costato la vita a 3.500 soldati (ai quali vanno aggiunti 14 mila membri delle forze armate e della polizia afghana) non è riuscito a pacificare il paese dopo la cacciata del governo talebano: le vittime civili del conflitto erano meno di 1.000 nel 2006, sono state più di 3.500 l’anno scorso; gli sfollati interni erano 150 mila nel 2008, ma l’ultimo conteggio Onu (luglio 2014) li stima in 700 mila. Barack Obama conquistò il suo primo mandato come presidente degli Stati Uniti anche dichiarando che l’America doveva richiamare le truppe dall’Iraq per concentrarsi sulla guerra ai talebani in Afghanistan. Sette anni dopo, i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Ma quale “sovrappopolazione”
I nomi di altri due grandi produttori di migranti illegali dovrebbero fare arrossire noi italiani: la Somalia esposta alle stragi degli Shabab filo-Al Qaeda e l’Eritrea del paranoico dittatore Isaias Afewerki, che chiama i giovani sotto le armi e poi non li lascia più tornare a casa. Entrambe sono state colonie italiane. La Somalia fu ri-affidata dall’Onu all’Italia nel 1950 perché la preparasse all’indipendenza, fissata per il 1960. L’Eritrea è diventata indipendente staccandosi dall’Etiopia nel 1993, e in 22 anni è stata capace di produrre 360 mila profughi all’estero su una popolazione di 6 milioni di abitanti.

Ma non è solo l’Italia che deve arrossire: mezzo secolo abbondante dopo la fine del colonialismo europeo e l’accesso all’indipendenza (la maggioranza dei paesi africani divenne indipendente nel 1960), i segnali di sviluppo del continente nero restano flebili, e molti giovani preferiscono emigrare, mentre i profughi dei paesi in guerra cercano di reinsediarsi in Occidente piuttosto che in un altro paese africano, oppure vengono confinati nel limbo di pletorici campi profughi (a Dadaab, Kenya, c’è il campo profughi più grande del mondo, che ospita 350 mila somali).

Gli osservatori di tendenza malthusiana puntano il dito contro l’asserita “sovrappopolazione” dell’Africa come prima causa dell’emigrazione verso l’Europa. È vero, le famiglie africane sono molto più numerose di quelle europee, e da tempo il continente nero ha superato l’Europa per numero di abitanti. Ma non è lo spazio che agli africani manca: nel loro continente vivono 25 abitanti per chilometro quadrato, nella vecchia Europa 68.

foto ansa