«Gay si nasce»? Postilla scientifica, teologica e pastorale alle parole del cardinale Kasper
Intervista a don Roberto Colombo, docente di neurobiologia e genetica umana: «Sarebbe come riconoscere una variazione del Dna. Nemmeno i movimenti Lgbt lo vogliono»
Roberto Colombo, 62 anni, sacerdote diocesano di Milano e professore di neurobiologia e genetica umana presso la facoltà di psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, è direttore del Centro per lo Studio delle malattie ereditarie rare dell’ospedale Niguarda Ca’ Granda (Milano) e docente del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su matrimonio e famiglia (Città del Vaticano). Ha rilasciato un’intervista a tempi.it sulle parole pronunciate al Corriere della Sera dal cardinale Walter Kasper: «Gay si nasce».
Il teologo tedesco ha usato questa affermazione per giustificare che l’omosessualità «non riflette il disegno originario di Dio e tuttavia è una realtà» che pone «un punto di domanda». Ma è proprio vero che «gay si nasce»?
L’affermazione è generica e non precisa, e, in quanto tale, non aggiunge nulla all’argomentazione antropologica-teologica in cui è inserita: resta un elemento spurio. L’espressione “si nasce così” – riferita a qualsivoglia tratto della fisicità o personalità umana – può assumere due significati eziologici: che il carattere è ereditabile in quanto ha una base genetica che ne determina la comparsa (come, per esempio, il gruppo AB0 del sangue), oppure che è congenito ma non ereditabile (un esempio è rappresentato dalla chiusura del tubo neurale del neonato in dipendenza dell’apporto di acido folico, la vitamina B9, durante la gestazione), essendo dovuto all’ambiente uterino in cui si sviluppa il feto, che è diverso da gravidanza a gravidanza (anche in una stessa madre). Per poter dire, con cognizione di causa, “si nasce così”, bisogna provare che il carattere “è così” e non potrebbe essere altrimenti (anche se non necessariamente lo si può osservare palesemente già nel bambino) per un fattore genetico oppure per un fattore ambientale pre-natale. Nel caso del comportamento omosessuale, nessuna delle due spiegazioni biologico-cliniche è robusta, né convincente sulla base dei dati scientifici oggi disponibili.
Eppure vi sono diverse ipotesi che sono state proposte come “scientifiche” negli ultimi decenni e che sembrano andare nella direzione indicata da Kasper.
Certo, sono stati compiuti studi sui gemelli monozigoti (i più noti sono quelli di Bailey e Pillard del 1991, di Bearman e Brückner del 2002 e del gruppo svedese di Långström nel 2010) e altri su diversi geni o regioni cromosomiche (come il controverso studio sul Xq28 – impropriamente detto “gene gay” – di Dean Hamer nel 1993 e i successivi studi, più solidi, su altre regioni cromosomiche o perfino l’intero genoma umano). Ma nessun singolo gene o regione di un cromosoma è in grado di spiegare la manifestazione di un comportamento omofilo nell’uomo o nella donna. Al massimo si arriva a ipotizzare una propensione, una suscettibilità all’orientamento omosessuale in un certo numero di soggetti studiati. Evidentemente – come per altri tratti complessi della personalità umana, per esempio l’intelligenza, la memoria o il temperamento – diversi e di svariata natura (genetica, ambientale, educativa, familiare, sociale ed altra ancora) sono i fattori in gioco. Lo stesso si può dire per gli studi sull’ambiente ormonale intrauterino cui è esposto il feto in determinate fasi della gestazione (tra i quali i più noti sono l’iperesposizione agli estrogeni e agli androgeni, sia di origine endogena che esogena): non vi è nessuna evidenza cogente che queste molecole determinino necessariamente alterazioni neuroendocrine in grado di spiegare la comparsa di un comportamento omosessuale nell’adolescente o nell’adulto. Come nel caso dei polimorfismi genetici, esse possono solo favorire lo sviluppo di un orientamento omofilo in alcuni dei soggetti, ma non predire in modo sicuro il loro comportamento sessuale, che dipende comunque e in modo rilevante anche da altri fattori. Del resto, sono le stesse teorie del gender che chiamano in causa, in modo decisivo, la libertà e il suo ruolo nelle scelte che riguardano la sfera affettiva e le relazioni sessuali tra i soggetti.
Lei vuol dirci che la tesi del cardinale Kasper secondo la quale l’essere gay per nascita è un dato di natura che appare in contrasto con il disegno di Dio non incontra il favore neppure delle ideologie Lgbt?
In un primo momento, quando Dean Hamer annunciò con forte enfasi nel 1993 la scoperta dell’ipotetico “gene gay”, grande fu l’entusiasmo di attivisti gay e lesbiche negli Stati Uniti e in altre parti del mondo. Essi pensavano che questa scoperta avrebbe contribuito a far loro ottenere quel consenso sociale che rivendicavano e ad abbattere le forme di discriminazione nei loro confronti. Il fatto di essere nati o nate così – senza desiderare, volere, scegliere questo comportamento – li avrebbe resi “innocenti”, “non trasgressivi”, uguali a tutti gli altri e le altre. Ma ben presto si accorsero che così non sarebbe stato. La stigmatizzazione dell’omosessualità non è diminuita, ma accresciuta dalla sua pretesa base genetica. Una variazione genomica, nella sequenza del Dna, è letta dall’opinione pubblica (o dalla maggior parte di essa, quella dei non specialisti in biologia e genetica) come un difetto, una mutazione al pari di quella che provoca una malattia genetica come la fibrosi cistica, le distrofie muscolari o certe forme di ritardo mentale. E questo è proprio quello che i movimenti Lgbt non vogliono: l’omosessualità, essi ripetono, non è una malattia, un difetto, una alterazione della personalità. Inoltre, se si ammette una base genetica per l’essere gay o lesbica, potrà essere un giorno disponibile un test genetico – eseguibile sul sangue, sulla saliva o su altri campioni biologici – attraverso il quale sarà possibile venire a sapere se un adulto (o anche un bambino) è o sarà omosessuale. E questo porterà a ulteriori discriminazioni sociali o lavorative. Una ragione ulteriore e decisiva per non abbracciare questa ipotesi deterministica, del resto, lo abbiamo detto, è che essa attualmente non risulta suffragata dai dati della ricerca scientifica.
Dunque, professore, il comportamento omosessuale contraddice il disegno originario di Dio sull’uomo, sulla donna e sulla loro relazione non perché la natura della sessualità sia “impazzita”, “ribelle” al Creatore in alcuni uomini e donne, facendoli nascere gay, ma per una mossa sbagliata della libertà umana, che asseconda l’istintività anziché abbracciare la bellezza dell’amore vero?
Ogni atto umano – e, per eccellenza, quello che coinvolge la totalità della persona umana, nella sua corporeità e spiritualità, quale è la relazione affettiva – non è mai semplicemente l’esecuzione meccanica di un movimento del corpo, il frutto di una operazione mentale o la conseguenza di uno stato emotivo. Lo diceva lucidamente san Tommaso: nell’atto umano si gioca tutta la libertà e la volontà del soggetto. Altrimenti non sarebbe un atto umano (e, dunque, un atto morale). L’antropologia moderna declinerà questo tema in termini di intenzionalità. Ammettendo – e vi sono ragionevoli evidenze scientifiche in questo senso – che l’orientamento sessuale dell’affettività sia influenzato da alcuni fattori biologici (in termini genetico-ereditari oppure ambientali-prenatali, per ricordare due tra le ipotesi più accreditate), qualora esso sia diretto in senso eterosessuale (come sembra essere nella maggior parte dei soggetti umani) risulterà meno impegnativo il compito della libertà e della volontà deliberata nell’aderire alla vocazione originaria dell’amore uomo-donna inscritta in ciascuno di noi secondo il disegno di Dio. Dico meno impegnativo, non facile, perché il compito educativo della libertà nell’aprirsi alla verità di noi stessi e nell’aderirvi non è mai scontato, banale. Tutt’altro. È un vero lavoro, e come tale, richiede una fatica e un rischio. Quello, appunto, della libertà. Nel caso, invece, in cui uno o più fattori biologici predispongano, creino una suscettibilità all’orientamento omofilo, questo impegno della libertà, questo lavoro su di sé può risultare faticoso, arduo. L’aderire, anche in questo caso, al disegno di Dio sull’amore umano, è più impegnativo. Non dobbiamo dimenticare questa fatica umana che tanti nostri fratelli e sorelle fanno, se vogliamo che il nostro giudizio sia secondo misericordia e non solo secondo verità. E papa Francesco ci ha invitato a non disgiungere mai la verità dalla misericordia, dalla comprensione, da quella «simpatia disarmata» che è la carità cristiana. E, anzitutto, non dobbiamo dimenticare che c’è la Grazia. La questione dell’omosessualità dei credenti non si gioca sullo stesso piano dei non battezzati, ossia solo a livello di libertà e di volontà. Quello che è impossibile per natura, non lo è per Grazia. Ce lo testimoniano non pochi credenti gay e lesbiche che, per Grazia di Dio e libertà loro, non sono prigionieri di una istintività ma lietamente vivono la virtù della castità. E il compito delle loro famiglie, delle comunità e della Chiesa è di aiutarli a vivere così, lietamente offrendo a Dio quello che sono, non altro.
Per concludere, potremmo dire che la questione sollevata dal teologo-cardinale Kasper è mal posta: di fronte al disegno di Dio sull’amore uomo-donna, il “punto di domanda” non è l’essere “nati gay” ma il ruolo della libertà e della Grazia in chi sente dentro di sé l’influsso di determinanti biopsicologici di orientamento omosessuale.
Senza chiamare in causa la libertà, non è possibile dirimere nessuna questione umana. Si cade nel determinismo biologico o nel condizionamento sociale, che sono le due forme ideologiche con cui oggi alcuni pretendono di affrontare e risolvere la condizione dell’omosessualità e del suo esercizio nella società civile e nella Chiesa. E la libertà ha per orizzonte la verità intera dell’umano, che è a noi accessibile attraverso la ragione umana e la rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Ma Dio non ci ha chiamati alla libertà nella verità – anche quella sull’amore umano – lasciandoci prigionieri del nostro limite, consegnandoci alla nostre sole mani. C’è una risorsa soprannaturale: la Grazia. Affrontando l’amore uomo-donna, il matrimonio e l’omosessualità, non si può prescindere dalla Grazia. Se lo facessimo saremmo dei moralisti pagani che chiedono o impongono ciò che è impossibile alle nostre forze. La Chiesa può trovare (o ritrovare) il coraggio di chiedere l’“impossibile” all’uomo e alla donna solo perché niente è impossibile a Dio: con la sua Grazia l’impossibile agli occhi del mondo diviene possibile a quelli che a Lui si affidano con libertà. La Grazia non è il premio, il coronamento di una vita che sarebbe già buona per natura (non è un superfluo!), ma la via per poter vivere pienamente la verità del nostro essere donna e uomo, il più potente ausilio della nostra libertà per una vita bella e buona.
Foto Ansa
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