Una coalizione insieme anche con i mussulmani
Mettiamoci d’accordo sulle parole. Se quanto accaduto a Parigi è unanimemente qualificato un atto di guerra – e lo è davvero – chi lo subisce ha il dovere in prima battuta di riconoscerne la natura; quindi, di regolarsi di conseguenza. E chi lo subisce non sono soltanto il Comune di Parigi o la Nazione francese: sono l’Europa e l’intero Occidente. È doveroso evitare la guerra, rimandarla, trovare soluzioni alternative; ma quando la guerra è dichiarata – le proclamazioni dell’Isis si sno addirittura sprecate – ed è tragicamente praticata, far finta che non ci sia significa negare la realtà.
All’indomani dell’11 settembre una coalizione di Stati intervenne in Afghanistan per individuare le basi del terrore: si può discutere sul seguito di questa missione, ma nessuno disconosce che l’intervento, realizzato sotto l’egida di più risoluzioni Onu, fosse necessario e abbia dato i suoi risultati. Non è certo, invece, che gli attentanti di venerdì siano seguiti da un’niziativa analoga: alla luce di quanto accaduto nei mesi scorsi nella stessa Parigi, e poi a Copenaghen, a Tunisi, a Beirut e sui cieli di Sharm-el-sheik, sarebbe già dovuto succedere. Quanto accaduto finora ha mostrato che l’Isis ha una forza militare, che ha esercitato occupando larghe fasce del territorio iracheno e siriano; ma non è invincibile: è stata fermata, per esempio, dall’eroica resistenza dei curdi a Kobane.
Gli analisti concordano sul fatto che un esercito ben organizzato, con esperienza, equipaggiato a dovere, riuscirebbe ad avere ragione dell’Is nel giro di qualche mese; combattere e vincere l’Is sul suo terreno, come chiede più d’un vescovo di quelle aree, avrebbe come effetto la perdita del mito, della sua capacità di reclutare in giro per il Mediterraneo e per l’Europa, ne frantumerebbe la suggestione, eliminerebbe le basi di addestramento che finora hanno formato aspiranti terroristi provenienti dai Paesi europei e li hanno rimandati indietro per realizzare i loro attentati. Quali sono gli ostacoli all’intervento militare? Il primo è che – a differenza del post 11 settembre – oggi nessuna nazione occidentale è disposta a perdere propri uomini sul terreno. Il secondo è che l’efficacia dell’operazione è legata alla sua natura multilaterale: immaginare che contro l’Is agiscano solo militari Usa, o anche militari dell’Ue, alimenterebbe la propaganda dello stesso Is, secondo cui è in atto uno scontro fra i fedeli dell’Islam e gli odiati “crociati”.
Coinvolgere nell’alleanza nazioni a maggioranza musulmana è essenziale, oltre che per contare su un maggior numero di soldati capaci, anche per mostrare a tutti che non è in gioco la confessione religiosa, ma il contrasto al terrore organizzato. É la linea teorizzata da papa Francesco, che in svariate occasioni ha ricordato il diritto e il dovere di fermare l’aggressore ingiusto, ma ha aggiunto che la qualifica di ingiusto attribuita all’aggressore non può venire da un unico Stato. Le quasi duecento vittime di Parigi, oltre a ferire e a gettare nel dolore ogni persona di buon senso, insegnano che se non si mette in conto che, con un intervento militare di terra, qualche soldato ritorni in patria nella bara, le bare si moltiplicheranno nelle città europee e saranno riservate in quantità crescente ai civili.
E insegnano pure che non serve, o provoca danni maggiori, che qualcuno vada avanti – come ha provato a fare Hollande con qualche bombardamento in Siria e in Iraq – se i partner si tirano indietro; è indispensabile e urgente il coinvolgimento di tutti. Dentro l’Europa, Parigi ci dice che urgono investimenti sui fronti dell’intelligence e del rafforzamento del sistema sicurezza: e il discorso non riguarda solo la Francia. Le infiltrazioni degli ambienti del radicalismo islamico costano; costa l’apprendimento dell’arabo, indispensabile per la prevenzione; costano gli strumenti di captazione degli accordi. Fare economia su questo fronte – vale per l’Ue, e ancor di più per l’Italia – equivale a condannarsi a pagare un costo molto più pesante.
Da ultimo, le comunità islamiche presenti in Europa: al cui interno certamente si celano e vengono reclutati i terroristi (non in via esclusiva: il web ha un ruolo sempre più efficace). L’errore più grave da compiere è farle coincidere con un’area di assoluta complicità con terrore: non è così, e anzi la medesima logica che porta a cercare alleanze con Stati come la Giordania, l’Egitto e soprattutto la Turchia nella formazione di una coalizione multinazionale anti-Is, deve portare a costruire una reale collaborazione con i tanti musulmani che nelle nostre città ambiscono a vivere tranquilli. Ci sono, sono sempre più preoccupati, e la difficoltà – anche in Italia – è che canali di confronto con le istituzioni, che pure erano attivi in passato, oggi non esistono (o non si ha notizia che esistano). Immaginare di aver ragione del terrorismo di matrice musulmana senza i musulmani è illusorio e sbagliato.
Ciò che non va fatto – ma purtroppo le prime reazioni alla tragedia di Parigi non sono incoraggianti – è l’enunciazione di parole vuote: siano esse di mera rassicurazione istituzionale, o di equiparazione sul piano criminale di tutti i fedeli dell’Islam, o di retorica condanna di quanto accaduto. Come nel 2001 dopo New York e Washington, il sangue sparso vicino alla Senna ci ingiunge a non perdere tempo e a fare, piuttosto che a dire.