chi ha ucciso la destra in italia ?

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magistrale intervento di Marcello Veneziani, da legge e diffondere.

 

Chi ha ucciso la cultura di destra in Italia?

Le piste al vaglio degli inquirenti sono quattro: la sinistra, Berlusconi, Fini, l’auto-liquidazione. O per dir meglio, le ipotesi finora avanzate sulla sua scomparsa sono le seguenti: a) l’egemonia culturale della sinistra con la sua cappa ideologico-mafiosa le avrebbe negato gli spazi di libertà e visibilità fino a soffocarla, confinandola in una zona proibita e infame. b) l’egemonia sottoculturale del berlusconismo in tv, nel costume e in politica l’avrebbe per metà corrotta e per metà emarginata, di fatto neutralizzandola. c) l’insipienza della destra politica avrebbe demolito ogni ragione culturale e ideale della destra, fino all’epilogo indecente della sua liquefazione. d) infine, la cultura di destra è evaporata per la sua stessa inconsistenza; era solo una diceria, un fantasma del passato, un mito o una protesi.

In una certa misura, sono plausibili tutte le piste indicate ma a patto di chiarirle meglio e circoscriverne la portata. Certo, la cultura dominante di sinistra, dopo un periodo di dialogo e di apertura, si è come inasprita negli anni del conflitto berlusconiano e alla pregiudiziale antica nei confronti della destra si è aggiunta la damnatio del berlusconismo. Fino a condannare la cultura di destra alla morte civile tramite finzione d’inesistenza. Sono lontani i tempi in cui un editore come Laterza pubblicava, facendo quindici ristampe, un saggio sulla cultura della destra di un autore vivente di destra. In seguito, avvelenato il clima, lo stesso editore declinò l’invito a integrare quel testo coi dialoghi dell’autore con Dahrendorf e con Bobbio. L’epoca dei dialoghi era ormai finita… Ma è pur vero che la cultura di sinistra era egemone già ai tempi in cui fioriva la cultura di destra e poi la nuova destra, tra gli anni settanta e i novanta; dunque l’ipotesi è fondata ma non basta a spiegare da sola la sconfitta della cultura di destra.

​È vera pure la seconda osservazione: la sottocultura televisiva, il frivolo e il banale dominanti, hanno reso straniera la cultura di destra, l’hanno messa a disagio, fuori posto. Ma quella sottocultura imperversava già dai tempi della tv in bianco e nero, della Carrà, dei quiz, di Giovannona coscialunga e affini; e allora non c’era ancora il berlusconismo. Insomma pure questa ipotesi è fondata ma non basta a spiegare da sola il disarmo politico della cultura di destra.
Anche l’insipienza della destra politica è storia vecchia, Fini l’ha portata al suo gradino ultimo, ma sarebbe troppo ritenere che i suoi passi falsi abbiano cancellato la cultura di destra. Quella cultura, peraltro, non viveva all’ombra di un partito, anzi era in permanente tensione e dissidio; per la stessa ragione non può essere stata uccisa dalla politica; semmai dall’assenza di luoghi politici e mediatici, istituzionali e culturali, in cui elaborare ed esprimersi.

Infine all’evaporazione della cultura di destra per intrinseca inconsistenza si può credere fino a un certo punto: vero è che la cultura di destra ha grandi radici e rari frutti ma la sua scarsa incidenza politica è dovuta in gran parte alla sua indole impolitica e la sua allergia a coprire ruoli di intellettuali organici o di intellettuali collettivi. Piuttosto è vera la rarefazione delle intelligenze, anche per il clima di cui sopra, tra nemici di fuori, ignoranti di dentro e il nulla che tutto pervade. Nel generale degrado della cultura, anche quella di destra sparisce. Della cultura di sinistra sopravvive la cupola del potere culturale, il suo ceto dominante e la sua intolleranza in forma di razzismo etico, ma non l’elaborazione di idee vive, di pensieri e opere originali.
Insomma i fattori qui esaminati possono essere considerati concause della sconfitta della cultura di destra ma la causa regina non riguarda solo la cultura di destra, non è la prevalenza di una cultura antagonista e nemmeno la modestia del suo ceto politico ma è la massiccia, radicale deculturazione in atto, ossia l’avvento di un potere e di una mentalità – non di un “pensiero unico” perché c’è poco pensiero – che espianta le idee, le radici e le culture e afferma il suo dominio cinico e nichilista sull’individualismo globale e mutante. Un orizzonte del genere mortifica ogni cultura politica; ma ancor più la cultura di destra, fondata su basi naturali, ereditarie e spirituali, totalmente divergenti e radicalmente avverse a quel mondo.

Disprezzo e autodistruzione                                           
Sul piano pratico il disprezzo concentrico verso la cultura di destra è stato promosso da tre agenti: una sinistra ancorata al politically correct che esprime e propaga ribrezzo etnico e antropologico verso chi è di destra; la presenza a destra di personaggi screditati, inaffidabili prima che impresentabili; e infine il complice, connivente, “disprezzino” dei cosiddetti indipendenti, terzisti e cerchiobottisti, a volte persino moderati vaghi, snob o affetti da codardia. Ci sono ballerini in punta di piedi che bilanciano ogni critica a sinistra con un insulto gentile a destra, per mostrare che sono in perfetto equilibrio; personcine ammodo che vogliono ostentare di essere incontaminate dal virus destrorso. Oggi la cultura di destra non è rappresentata in alcun luogo istituzionale, canonico, o nei grandi media.

Non mancano però pulsioni autodistruttive nella cultura di destra, derivate da un pessimismo apocalittico un po’ congenito unito a uno sconforto vittimista derivato dalla situazione. La cultura di destra ha così dismesso i panni della cultura militante, panni vecchi e fuori tempo, si è fatta divina e sublime, direi con gergo pasoliniano, cioè invisibile e celeste, meno legata alla storia e alla lotta, più essenziale ed esistenziale, liberata dalle categorie ideologiche, più incline alla metafisica, alla letteratura e al mito. Del resto, i suoi grandi autori del passato, nonostante alcuni ombrosi risvolti biografici, restano grandi ed è meglio che non siano sporcati nella contesa politica e siano lasciati alla loro solitudine stellare di impolitici o di metapolitici.
Sfortunata quella cultura che ha bisogno della politica per darsi una prospettiva di vita. Non è la politica a legittimare e innalzare la cultura, è una concezione assistenziale, cortigiana e parassitaria della cultura; meglio la solitudine ribelle e aristocratica della cultura: o la versione popolare, comunitaria della cultura che diventa mentalità, sensibilità, sentire comune. La cultura si addice a popoli o a solitudini, non è appannaggio di club, sette, partiti degli intellettuali o intellettuali di partito. Sfortunata è quella cultura che ha bisogno della politica, ma più sfortunata è quella politica che crede di poter fare a meno della cultura. Le culture di partito, militanti, servono a poco, servono male e soprattutto servono, cioè sono servili, dunque perdono in dignità e in libertà.
Ma i partiti senza cultura non vanno da nessuna parte, pescano voti e occasioni però si perdono nel nulla. È sbagliato obbligare la cultura a un’etichetta, di destra o di sinistra che sia. Ma non è sbagliato fare l’inverso; se la politica non ha la vista lunga, non ha un progetto e una passione civile, se non si sedimenta e diventa una sensibilità e una visione, è passeggera, volatile, autoreferenziale, asservita al potere e agli interessi economici.

Il fallimento della destra di governo
Al di là degli agenti profondi che hanno concorso alla sconfitta della cultura di destra, c’è un fattore macroscopico, evidente: il fallimento dell’esperienza di governo della destra politica. La destra in Italia non è sparita perché ha fatto troppo la destra; non è caduta su progetti, imprese, idee connotate con i propri colori e con la propria cultura. È morta d’anemia, si è spenta perché si è resa neutra e incolore, perché si è uniformata per confondersi; perché non ha inciso, non ha lasciato segni distintivi del suo passaggio. Non è morta d’identità ma dinientità, non è morta di estremismo ma di mediocrità. Non è morta nemmeno di saluti romani e culture retrò ma d’imitazioni maldestre. Nessuna delle critiche di gestione mosse alla destra si può attribuire alla sua storia, alla sua indole e ai suoi valori; anche gli aspetti peggiori non nascono dalla sua storia ma sono imitazioni e importazioni di modelli. Erano modi di adeguarsi all’andazzo, tentativi di mostrare che erano uomini con uso di mondo, sapevano stare al potere e in società, non disadatti o a disagio.
A volte si sono adeguati al peggior berlusconismo, a volte hanno imitato il peggio della prima repubblica che all’epoca contestavano. A volte hanno cercato di compiacere la sinistra e le sue fabbriche d’opinione, i poteri che contano, i media ostili. Senza peraltro riuscirci. Hanno avuto paura di spingersi troppo, di osare. Temevano di perdere il posto, ma l’hanno perso lo stesso, perdipiù senza gloria e senza il sostegno dei loro elettori di sempre.
Dicendo che la destra non ha pagato per la sua identità e la sua cultura politica, non intendo sostenere l’inverso, cioè che se fosse stata coerente avrebbe trionfato. Forse avrebbe perso ugualmente, ma con maggior dignità, avrebbe un punto da cui ripartire, avrebbe lasciato qualche traccia, avrebbe almeno la fiducia dei suoi cari. Con le identità non si governano gli stati; si fanno partiti di nicchia o al più larghi movimenti d’opposizione come è il caso di Marine Le Pen, ma non si va al governo. Ma ha senso andare al governo se poi si va via in modo disonorevole senza lasciar tracce né buoni ricordi, nemmeno tra la propria gente? Il problema numero uno è l’inadeguatezza di quella classe dirigente, la pessima selezione di quel personale politico.

​Chi viene da destra abbia il coraggio di fare un bilancio impietoso degli anni passati al governo. È stata al potere ma cosa ha lasciato per la destra, per le città, per l’Italia? Un pugno di mosche più qualche zanzara. Non resta che ripartire da zero, con volti nuovi, teste capaci e cuori intrepidi. Se ci saranno. E infine un leader che avrà la forza di sintetizzare, senza polverizzare, le varie componenti.

Marcello Veneziani
(Estratto del saggio  per la rivista Paradoxa sulla sconfitta delle culture politiche, a cura di Gianfranco Pasquino e Dino Cofrancesco)