20 anni fa il massacro dei trappisti di Thibirine

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“Se mi capitasse un giorno di essere vittima del terrorismo… vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e all’Algeria”. E’ il testamento spirituale di padre Christian de Chergé, uno dei sette monaci trappisti assassinati 20 anni fa dai fondamentalisti islamici del Gia. I sette monaci furono sequestrati nel loro monastero a Thibirine nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 e successivamente barbaramente uccisi. Un mese dopo, l’atto criminale venne rivendicato dal capo dei Gruppi islamici armati (GIA), Djamel Zitouni. Nel comunicato proponeva alla Francia uno scambio di prigionieri. Il mese successivo un secondo comunicato dei GIA annunciava la morte dei sette: “Abbiamo tagliato la gola ai monaci”. Era il 21 maggio. Nove giorni dopo vennero ritrovate presso il monastero le teste dei sette monaci decapitate, senza i corpi. Questi fratelli venivano da diversi monasteri francesi. Dunque, hanno dovuto imparare a vivere insieme. La cosa più importante e drammatica della loro esperienza prima dell’uccisione, è stata l’incursione dei ribelli nel Natale 1993. Gli uomini armati poi sono andati via, ma l’esperienza di paura e la consapevolezza del rischio della morte, ha sollevato nei monaci un senso di “essere insieme” davanti al pericolo. Così, nei tre anni seguenti hanno costruito una comunità fondata sul desiderio di restare e testimoniando la bellezza di Dio.

Un generale francese in pensione, François Buchwalter, addetto militare in Algeria all’epoca della strage, raccontò ai giudici un’altra versione. Secondo la sua testimonianza i monaci furono falciati dai colpi di mitragliatore sparati da un elicottero dell’esercito algerino; dall’alto erano stati scambiati per jihadisti. Resisi conto dell’errore, i militari allestirono una macabra messa in scena, decapitarono i religiosi e fecero sparire i loro corpi, crivellati di proiettili in dotazione dell’esercito. Quindi attribuirono la responsabilità del massacro al GIA. Nella sua sofferta deposizione il generale Buchwalter confessava di disubbidire all’ordine del silenzio che i suoi superiori gli avevano imposto. I responsabili del massacro sono rimasti anonimi. Leggiamo testamento di fr. Christian: “Il mio corpo è per la terra, ma, per favore, nessuna barriera tra lei e me. Il mio cuore è per la vita, ma, per favore, nessuna leziosità tra lei e me. Le mie braccia per il lavoro, saranno incrociate molto semplicemente. Per il mio volto: rimanga nudo per non impedire il bacio, e lo sguardo, lasciatelo vedere. P.S.: Grazie”.

Christian de Chergé. Figlio di un generale, conobbe l’Algeria durante tre anni della sua infanzia, e poi nei ventisette mesi di servizio militare, in piena guerra d’indipendenza algerina. Dopo gli studi al seminario dei carmelitani di Parigi divenne cappellano della Chiesa del Sacré Coeur di Montmartre a Parigi. Presto però entrò nel monastero di Aiguebelle, e divenne monaco nel 1969, per raggiungere Tibhirine nel 1971. Priore della comunità, aveva 59 anni al momento della morte. Dotato di una personalità forte, rappresentava la guida umana e spirituale del gruppo. Fu lui a far passare il monastero a priorato, per orientarlo verso una presenza di “oranti in mezzo ad altri oranti”. Aveva una conoscenza profonda dell’Islam.
Luc Dochier. Nato nel Drome, fu medico durante la guerra; questa esperienza lo portò ad avere una particolare sensibilità per la sofferenza. Arrivò a prendere il posto di un padre di una famiglia numerosa in partenza per un campo di prigionia in Germania.Divenne monaco nel 1941, e si trasferì in Algeria nel 1947. Per tutti era “il dottore” e, per usare una sua espressione, si sentiva “un vecchio consumato ma non disilluso”. Nei cinquant’anni che trascorse a Tibhirine curò tutti, gratuitamente, senza distinzioni. Nel luglio 1959 era già stato rapito dai membri del Fronte di Liberazione Nazionale. Le crisi d’asma non avevano intaccato il suo humour salace. Al momento della morte era il più anziano della comunità, avendo 82 anni.
Christophe Lebreton. Settimo di dodici figli, aveva prestato servizio civile a titolo di cooperazione in Algeria. La radicalità di vita dei monaci lo affascinava, e a 24 anni entrò nel monastero di Tamié, divenendo monaco nel 1974. In Algeria stava dal 1987, venne ordinato prete nel 1990, e fu nominato maestro dei novizi della comunità. Personalità calda ed esplosiva, sapeva privilegiare i rapporti con i più umili e la caparbia volontà di spingersi sempre più lontano nella riflessione sulla fede e nel dono di sé. All’epoca del martirio aveva 45 anni.
Bruno Lemarchand. Figlio di militare, nell’infanzia conobbe l’Indocina e l’Algeria. Fu per quattordici anni direttore del collegio Saint-Charles di Thonars di Deux-Sèvres. Uomo posato e riflessivo, divenne monaco nel 1981, e soggiornò in Marocco dal 1990, come animatore della fraternità che la comunità aveva aperto a Fez. Il 26 marzo 1996 si trovava a Tibhirine per caso, come Michel e Célestin, proveniente dall’abbazia di Bellefontaine per partecipare alle votazioni per il rinnovo della carica di priore. Morì a 66 anni.
Michel Fleury. Nato da una famiglia contadina della Loire-Atlantique, era entrato nella congregazione del Prado a 27 anni, e aveva lavorato come fresatore a Lione e a Marsiglia, prima di entrare nell’abbazia di Bellefontaine; divenne monaco nel 1981. A Bellefontaine sentì la chiamata dell’Algeria, dove si trasferì nel 1985. Uomo semplice e schivo, impregnato di povertà, a Tibhirine fu cuoco della comunità e uomo dei lavori domestici. Era sua la cocolla che venne ritrovata sulla strada di Medea dopo il rapimento. Morì a 52 anni.
Célestin Ringeard. Durante la guerra d’Algeria, dove svolgeva l’ufficio di infermiere, curò un partigiano ferito che l’esercito francese avrebbe voluto finire. Svolse lavoro di educatore di strada a Nantes, in mezzo ad alcolizzati, prostitute e omosessuali. Prete diocesano, scelse poi la Trappa, e divenne monaco nel 1983. Fu inviato in Algeria nel 1987. Estremamente sensibile, dovette subire sei by-pass coronarici dopo la prima visita che i terroristi del GIA fecero al monastero nel Natale 1993. Fu ucciso a 62 anni.
Paul Favre-Miville. Era stato idraulico, e aveva fatto il militare in Algeria come ufficiale paracadutista. All’età di 45 anni sentì la vocazione alla vita contemplativa, divenendo monaco nel 1984. Trasferito in Algeria nel 1989, a Tibhirine fu “l’uomo dell’acqua”,occupandosi dell’impianto di irrigazione degli orti. Nel marzo 1996 era appena rientrato da una visita alla sua famiglia, ed era ritornato con una discreta scorta di vanghe e con dei giovani faggi da piantare, perché “in lingua cabila Tibhirine significa giardino”. Fu ucciso a 57 anni.
Fratel Jean Pierre, l’ultimo sopravvissuto, l’ultima volta che è stato intervistato aveva ha 87 anni e viveva nel monastero trappista di Midelt, in Marocco, era uno di loro. È scampato per miracolo al rapimento e quindi al massacro dei sette confratelli. L’altro, fratel Amédée, che pure era sopravvissuto alla strage, è deceduto nel 2008. Per oltre trent’anni presente a Tibhirine, era stato a lungo il portinaio di quella comunità monastica che si era insediata sui contrafforti dell’Atlante algerino sin dal 1938. A Midelt, sul Medio Atlante marocchino, dove si era trasferito immediatamente dopo il rapimento, continuava a fare da portinaio.“È per questa ragione che quella notte mi hanno risparmiato”, racconta con grande pacatezza e molta serenità. “Perché la mia camera in portineria stava un po’ in disparte rispetto alla clausura. E poi i terroristi avevano avuto l’informazione che eravamo sette. Ma quella notte eravamo nove”. Per concludere, ricordiamo le parole di Padre Christian, che era il priore della comunità:“I cinque pilastri della pace sono la pazienza, la povertà, la presenza, la preghiera e il perdono”. Allora, questo mi ha colpito molto: non è una cosa straordinaria, ma è una cosa di tutti i giorni, che possiamo vivere – ciascuno di noi – nella nostra situazione personale”.

Don Salvatore Lazzara