Articolo di Alfredo Mantovano pubblicato il 14 aprile 2017 su Tempi.
È una emergenza, ma pare che non interessi a nessuno. Ve ne sono evidenti sintomi esterni. Dalla quantità – cresciuta – di incidenti stradali gravi dalla causale inspiegabile: un giovane si schianta con la moto contro un albero, senza che la strada sia dissestata o ci sia un temporale in corso; un altro si cappotta con la propria auto andando dritto dove c’era una curva, pure senza un ostacolo che lo abbia determinato. Alla quantità di liti o di rapine che degenerano in eventi omicidiari: se l’intento del singolo atto criminoso fosse stato uccidere, il responsabile avrebbe provveduto subito con lo strumento più efficace, e invece è partita una discussione, e poi non ci si riesce a fermare. Quei freni che non vengono azionati sulla vettura non funzionano neanche per limitarsi a dare un cazzotto, o a puntare una pistola senza premere il grilletto. La moltiplicazione di fatti come questi si affianca alla moltiplicazione della diffusione di droga, segnalata dalle relazioni ufficiali, e alla contrazione dell’attività di prevenzione e di contrasto, pure deducibile da dati obiettivi, a disposizione di tutti: basta visitare il sito del Dipartimento antidroga della presidenza del Consiglio.
La canna circola senza problemi nelle scuole. Le ricadute in termini di affievolita padronanza di sé stessi, di rendimento scolastico scadente, di aumento di patologie che si ricollegano ai danni da cannabinoidi, sono registrate in modo obiettivo. Al pari del crollo degli ingressi nelle comunità di recupero. Tutto ciò non è frutto del caso, ma è in larga parte ascrivibile a un decreto-legge la cui conversione fu imposta al Parlamento con voto di fiducia dal governo Renzi tre anni fa. Quelle disposizioni:
a) hanno ripristinato l’antiscientifica distinzione fra droghe cosiddette pesanti e droghe cosiddette leggere, con sanzioni molto più lievi per il traffico e lo spaccio di queste ultime;
b) hanno reintrodotto la possibilità di detenere stupefacenti senza limiti individuabili con precisione, se la sostanza è «per uso personale», con la prova dell’uso «non personale» posta a carico di chi fa le indagini;
c) hanno reso di fatto impossibile arrestare nella flagranza dello spaccio, se quest’ultimo appare «di lieve entità», essendo stata abolita l’obbligatorietà dell’arresto medesimo.
Una parte della giurisprudenza ci mette del suo: rende superflua la legalizzazione, perché la sancisce già in concreto: quando nelle ordinanze e nelle sentenze l’«uso personale» viene sommato fra più soggetti, perfino lo spaccio di centinaia di dosi attenua la sua gravità, e il “consumo di gruppo” diventa l’aberrante qualifica di tale sommatoria. La droga è tanta – questa è la logica –, ma poiché sarà parcellizzata fra più individui, fa meno male e merita la diminuente dell’«uso personale». È stato per questo che uno dei due presunti responsabili della morte di Emanuele Morganti, ad Alatri, arrestato il giorno precedente l’omicidio perché trovato in possesso di centinaia di dosi di droga, è stato rimesso in libertà dopo poche ore perché il giudice aveva ritenuto lo stupefacente finalizzato al «consumo di gruppo».
È passato il messaggio che ci sono droghe che non producono danni, altrimenti perché le si chiama “leggere”? Logica conseguenza è sanzionarne lo spaccio in modo simbolico. Se peraltro quest’ultimo è realizzato con furbizia, è attività simile a quella del venditore di sigarette di contrabbando di 30 anni fa; una volta permesso solo l’arresto facoltativo in flagranza, quale agente di polizia rischia il rimbrotto del pm di turno per aver condotto lo spacciatore in camera di sicurezza? A questo disastro si aggiunge l’effetto in senso lato culturale della proposta di legalizzare lo spaccio delle droghe “leggere” incardinata in questo momento alla Camera: l’assioma che non procurano danno trova conferma, altrimenti perché le si “legalizza”? Chi affronta un percorso di recupero, se ci si può “fare” e spacciare impunemente?
Non è solo questione di legge cambiata: vi è un grande problema di educazione familiare e di formazione a scuola. Ma chi ha un briciolo di onestà intellettuale, di fronte a quanto accade, non può negare che oggi lo sballo incontra meno ostacoli. Invece di ripensare il decreto legge criminogeno del 2014 e di lanciare una grande campagna di informazione e di prevenzione fra i più giovani, proseguiamo il percorso di morte con una bella legalizzazione?