A C L I
ASSOCIAZIONE CRISTIANA LAVORATORI ITALIANI
XXIX° CONGRESSO PROVINCIALE ACLI MILANO – MONZA E BRIANZA
RIGENERARE COMUNITÀ PER RICOSTRUIRE IL PAESE
MILANO, 10 MARZO 2012
AUDITORIUM SAN FEDELE
+ Angelo Card. Scola
Arcivescovo di Milano
1. Rigenerare la ragione economica e quella politica
È sempre più evidente che l’odierna crisi economico-finanziaria richiede, se la si vuol interpretare adeguatamente, di essere inquadrata nell’ambito generale della delicata fase di transizione che il nostro Paese, insieme a tutto l’Occidente, attraversa. Una transizione che mette in campo i “fondamentali” della concezione dell’uomo e della vita buona. Questa è una delle ragioni che mi spingono da tempo a parlare di travaglio, non limitandomi a descrivere l’attuale situazione in termini di crisi economico-finanziaria. Tale scelta esige di non fermarsi alle pur necessarie misure tecniche per far fronte alle gravi difficoltà che stiamo attraversando.
In proposito voglio far emergere un dato che reputo decisivo: nonostante l’ostinato tentativo di mettere tra parentesi la dimensione antropologica ed etica dell’attività economico-finanziaria, in questo momento di grave prova il peso della persona e delle sue relazioni torna testardamente a farsi sentire.
Riprendo talune notazioni da me esposte nel Discorso alla città in occasione della Festa di Sant’Ambrogio.
«Per questa ragione è ormai chiaro che non basta la competenza fatta di calcolo e di esperimento. Per affrontare la crisi economico-finanziaria occorre anche un serio ripensamento della ragione, sia economica che politica, come ripetutamente ci invita a fare il Papa… Per sollevare la nazione è necessario il contributo di tutti, come succede in una famiglia: soprattutto in tempi di grave emergenza ogni membro è chiamato, secondo le sue possibilità, a dare di più. Chi ha il compito istituzionale di imporre sacrifici dovrà però farlo con criteri obiettivi di giustizia ed equità inserendoli in una prospettiva di sviluppo integrale (Caritas in veritate) che non si misura solo con la pur indicativa crescita del PIL» (Discorso di Sant’Ambrogio, Crisi e travaglio. All’inizio del Terzo millennio, 6 dicembre 2011).
Per queste ragioni trovo particolarmente stringente il titolo di questo Congresso: “Rigenerare comunità per ricostruire il Paese”, così come pertinenti risultano le tesi precongressuali.
Qual è la nostra responsabilità di cristiani di fronte a una tale situazione? Come dobbiamo muoverci?
Per rispondere a queste domande vorrei procedere in due tappe. Nella prima ho pensato di proporre tre indicazioni di metodo che, a mio avviso, possono sostenere l’azione sociale dei cattolici in questo delicato frangente storico. Nella seconda intendo indicare una proposta sintetica di azione offerta dal magistero sociale di Benedetto XVI.
2. A proposito del metodo dell’azione sociale
a) Ideale (cultura), non utopia
Qual è il nemico più subdolo della ricostruzione del paese il cui protagonista è un soggetto in azione che persegue la vita buona? È l’utopismo. Utopia è – come dice il suo significato etimologico – il “non luogo” quindi l’inesistente. Qualcosa che non esisterà mai. L’uso che spesso si fa della parola utopia è strutturalmente improprio. Come afferma lo storico francese Guy Bédouelle le utopie sono “rêveries” architetturali o sociali scritte nella pietra (come la città di Pienza) o sulla carta come l’Utopia di Tommaso Moro o La città del sole di Campanella: possono al massimo indicare delle aspirazioni di riconciliazione, tolleranza ed unità, ma non consentono una reale costruzione. L’utopia, che nasce dalla inevitabile ideologia, è pura teoria anche se si basa su articolate analisi della realtà. Genera avanguardie che devono applicarla, costi quel che costi, alla realtà. Per questo finiscono quasi sempre col far ricorso alla violenza.
Altra cosa è l’ideale. L’ideale è la verità del reale, quindi esiste. È concreto e rintracciabile nell’esperienza dell’uomo che affronta ogni giorno circostanze e rapporti. In forma incompiuta, frammentaria, ma esiste. Se correttamente perseguito potrà realizzarsi sempre più. L’ideale è qualcosa di presente, che mi sta sempre davanti come un compito con cui mi devo impegnare, a partire da una precisa realtà. Questo esige un soggetto integrale – personale e sociale – in azione. Su queste basi con umiltà, senza presunzione, comunitariamente, sensibile a testimonianze profetiche, il soggetto cercherà – per quanto possibile e se ne sarà capace – interpretando la realtà, di agire perché la verità nella libertà abbia sempre la meglio. L’ideale è un fatto di popolo, l’utopia è una questione di avanguardie. Evidentemente è ben diverso affrontare questioni come stili di vita, pace, giustizia, l’equilibrio del mercato, l’integrazione degli immigrati nella prospettiva dell’ideale o in quella dell’utopia.
b) Non egemoni
La seconda osservazione di metodo che voglio proporre consegue alla scelta per l’ideale contro l’utopia. Mi riferisco ad un atteggiamento decisivo dell’agire cristiano in campo sociale. Tale agire, che tende a realizzare l’ideale vita buona, è libero da ogni tentazione di egemonia sociale. L’egemonia è l’utilizzo sistematico della verità sociale (cultura, ideale) a proprio favore. Egemonico utilizzo dell’ideale (cultura) a scopo del potere. Il potere anziché essere riconoscimento della verità tenderà ad utilizzare la forza della verità a proprio vantaggio.
Nascendo dal coinvolgimento della nostra libertà con l’evento di Gesù Cristo, l’azione del cristiano anche in questo campo, distinto ma non separato da quello ecclesiale, ha sempre la forma di una proposta rivolta alla libertà di ogni membro dell’umana comunità. Ovviamente occorre distinguere tra la cosiddetta funzione di insegnamento nella Chiesa, attraverso il Magistero dei Vescovi cum Petro et sub Petro, funzione che non può venir mai meno, ed il sempre contingente impegno in ambito socio-politico proprio della missione dei fedeli laici. Occorre, infatti, muoversi «nella chiara consapevolezza della distinzione e della differenza tra la missione della Chiesa come tale e le autonome responsabilità propriamente politiche dei fedeli laici» .
Dalla visione cristiana dell’uno, del vero, del buono e del bello scaturisce una concezione integrale della vita buona a livello personale e sociale che il cristiano persegue con tenacia nella libera arena democratica. Il dovere di contribuire alla costruzione di una vita buona attraverso l’azione socio-politica resta per lui inderogabile. Pur mirando, soprattutto in politica, a fornire risposte a concrete questioni non ripone ultimamente la sua fiducia nei risultati. Per questo non elabora utopie da realizzare mediante militanze avanguardistiche per conquistare l’egemonia nella società. Da qui l’insegnamento del Magistero circa il rapporto Chiesa-politica da cui emerge la responsabilità diretta dei fedeli laici in questo ambito .
La vita buona, sempre doverosa, non è per il cristiano e per la comunità ecclesiale una utopia, non configura una terza o quarta via, ma la partecipazione realistica ad una costruzione comune all’interno di una società plurale. Questo esige sempre passione integrale per la verità situata nella storia (incarnazione). Fermi sui principi e liberi e realisti nell’invenzione delle forme. Capaci di chiara identità e di collaborazione piena di abnegazione con tutti. Il pensiero sociale cristiano in proposito è una miniera ancora inesplorata e, soprattutto, poco conosciuta dalla maggioranza dei fedeli.
La storia bimillenaria della Chiesa, al di là dei mille errori dei cristiani, resta un documento imponente in questo senso. Nel mondo, ma non di questo mondo.
c) Testimonianza, non militanza
Quale figura di cristiano emerge da queste brevi cenni? Quella del testimone. Ecco la terza ed ultima osservazione di metodo. L’uomo che vive per l’ideale, libero dall’esito del suo impegno, è innanzitutto un testimone.
Il testimone è qualitativamente “altro”, un’altra cosa rispetto al cristiano militante (senza enfatizzare la critica ormai nota alla categoria di militanza). Il soggetto militante parte poco o tanto dall’utopia (progetto, piano, programma) e punta all’egemonia mediante l’elaborazione di strategie e la ricerca di tecniche per la sua attuazione. E la logica non cambia se la strategia militante sceglie la strada trionfalistica piuttosto che quella della diaspora.
Qual è, invece, il contenuto della testimonianza? Il gratuito e spontaneo comunicarsi di una vita cambiata per grazia, che rigenera comunità e giunge, nella accurata distinzione di ambiti, fino al sociale, al civile, al politico. È la missione che implica parresia di dottrina e di azione.
In quest’ottica il popolo cristiano, personalmente e comunitariamente, vive la missione in tutti gli ambienti di vita dell’umana esistenza perché fa esperienza che desiderio e compito, volere e dovere, non si elidono, ma si integrano nell’umanissima avventura cristiana.
E così l’azione del cristiano acquista un significato eterno e si avverano ancora una volta le parole del poeta e beato Karol Wojtyla nella poesia La cava di pietra, che fa riferimento alla sua esperienza giovanile di lavoratore alle Solvay: «Non temere. Le azioni umane hanno rive spaziose, / non puoi costringerle a lungo dentro un alveo ristretto. / Non temere. Nei secoli durano le umane azioni / in Colui al quale guardi nel ritmo di questi martelli» .
3. A proposito del contenuto dell’azione sociale
Parlando all’Accademia delle Scienze Sociali Benedetto XVI ha affermato, a proposito di bene comune sociale, la necessità di porre «la dignità della persona nel punto di intersezione di due assi, uno orizzontale, che rappresenta la “solidarietà” e la “sussidiarietà”, e uno verticale, che rappresenta il “bene comune”» .
Ci sono dunque in questo “schizzo” due assi fondamentali che dobbiamo trattenere:
a) sull’asse orizzontale: non è possibile rispettare la dignità umana (che rischia spesso di diventare un grande luogo comune) senza aver cura solidale di chi è in difficoltà; ma non è possibile una solidarietà autentica senza garantire alle persone una fondamentale libertà di iniziativa . Così, se la sussidiarietà corrisponde alla dimensione di singolarità irriducibile della persona come protagonista e non oggetto della società, la solidarietà corrisponde a quella della appartenenza sociale: duplice dimensione, la cui espressione e il cui rispetto sono indispensabili per una socialità a misura della dignità di ogni persona umana.
b) sull’asse verticale: il bene comune è il bene condiviso nella stessa socialità, che come bene umano non ha automatica attuazione ma va voluto e praticamente perseguito (la società è maxime opus rationis). Esso sta a fondamento della società, come un bene di persone il cui valore dà sostanza e insieme eccede il bene comune. Per questo il bene comune compiutamente inteso non si conclude con quello storico sociale, ma è aperto al bene comune delle persone come tali. In questo senso non è possibile rispettare fino in fondo la dignità umana senza adombrare una prospettiva escatologica di compimento della persona e di tutte le persone. Se il bene comune della convivenza diventasse orizzonte intrascendibile, il rischio più grande sarebbe quello della deriva totalitaria, cioè dell’appiattimento della persona entro la soffocante misura di un’aspettativa di salvezza intrastorica: ogni totalitarismo è, in fondo, la divinizzazione di un’idea mondana di vita buona. Ovviamente questo non deve significare sottomettere la politica al regime della teologia. Significa, però, liberarsi dal delirio di poter garantire da soli la promessa di felicità che spinge gli esseri umani a costruire società ordinate secondo giustizia.
Se ora proviamo a leggere sulla base dello schizzo proposto da Benedetto XVI questa necessaria verticalizzazione del bene comune, che cosa succede? Diventa comprensibile quello che già Maritain aveva indicato nel 1947: c’è un bene comune – come San Tommaso insegna – che vale di più del bene dei singoli consociati; ma questo bene comune, che Maritain chiama «bene comune immanente», vale meno (è infatti “infravalente”) di quel bene cui la comunità umana è ultimamente ordinata e che per Maritain (come per Tommaso) è il «Bene comune increato delle tre Persone divine» . Si capisce allora perché Benedetto XVI affermi che la vera solidarietà compie se stessa quando diviene carità e che la vera sussidiarietà compie se stessa lasciando spazio all’amore: perché è qui, nella carità e nell’amore, che Dio “accade” come risposta inaudita alla promessa inscritta nel bene comune immanente .
Bene comune increato
Solidarietà Dignità umana
Sussidiarietà
Bene comune immanente
Certo, anche solo parlare di questo progetto architettonico è divenuto oggi tanto affascinante quanto impegnativo. Ma questa difficoltà è parte del problema che l’etica sociale cristiana deve affrontare, posto che voglia sostenere ragionevolmente la speranza di una vita sociale degna dell’umano.
Questa, sembra a me, è l’urgenza che la vostra associazione, dopo 60 anni di esperienza, può fare propria per guardare al futuro mettendo a frutto il guadagno di tante generazioni di aclisti. In ogni caso questa è ciò che la vita buona della nostra società domanda e che la Chiesa vi raccomanda.