Il gioco è una cosa seria. Non a caso da bambini si impara a conoscere il mondo e se stessi proprio giocando.
Ma antropologi e filosofi ci spiegano che il gioco è una cosa seria anche per gli adulti. Del resto gli sport (con le stesse olimpiadi) sono stati inventati nella patria del pensiero filosofico, la Grecia antica.
Prendiamo allora il calcio, che nella nostra epoca è un fenomeno sociale di dimensioni planetarie, capace di catalizzare la passione di un intero continente perfino in un’estate di torrida crisi economica come questa.
A svelarci il segreto fascino di questo sport – con una sua “teologia del calcio” – è una delle menti più luminose della nostra epoca: Joseph Ratzinger.
La sua sorprendente riflessione – contenuta in “Cercate le cose di lassù” – risale agli anni Ottanta o forse a quelli in cui era arcivescovo di Monaco di Baviera.
Come sempre Ratzinger sorprende.
In questo caso mostra che – ce ne rendiamo conto oppure no – tutto quello che è fatto dagli uomini, fosse pure un gioco, uno sport, una partita di calcio, si porta sempre dentro il loro mistero e il mistero della vita. Alla fine fa parte sempre della “grande partita” con Dio.
Il cardinale-teologo parte dal campionato mondiale di calcio e osserva che se questo evento riesce, ogni quattro anni, ad avere nel mondo una eco senza eguali, significa che “tocca un qualche elemento primordiale dell’umanità”.
Dunque non può essere liquidato come lo svago “di una società decadente che non ha altri obiettivi più elevati”, secondo la condanna di certi moralisti, i quali evocano con piglio sprezzante il motto “panem et circenses” dell’antica Roma.
Al contrario Ratzinger usa proprio quel motto per demolire il moralismo e avventurarsi nelle profondità dell’uomo. Si chiede: “in cosa risiede il fascino di un gioco che assume la stessa importanza del pane?”.
La domanda è spiazzante e la sua risposta è geniale:
“Si potrebbe rispondere, facendo ancora riferimento alla Roma antica, che la richiesta di pane e gioco era in realtà l’espressione del desiderio di una vita paradisiaca, di una vita di sazietà senza affanni e di una libertà appagata”.
Infatti, spiega, il “gioco” in ultima analisi è proprio questo. “un’azione completamente libera, senza scopo e senza costrizione, che al tempo stesso impegna e occupa tutte le forze dell’uomo. In questo senso il gioco sarebbe una sorta di tentato ritorno al Paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la libera serietà di ciò che non è obbligatorio e perciò è bello”.
Questa rivelazione – il gioco come nostalgia dell’Eden – a prima vista stupisce, sembra audace, ma a ben vedere è molto convincente. Fa vibrare dentro qualcosa che inconsciamente sappiamo tutti.
Poi Ratzinger si spinge oltre e nota che “il fascino del calcio” sta nel legare queste due cose attraverso un elemento molto prezioso: “costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere con l’allenamento, la padronanza di sé; con la padronanza, la superiorità e con la superiorità, la libertà”.
Cioè, il calcio insegna quella che nel linguaggio cristiano si chiama “ascesi” e nel linguaggio popolare “lo spirito di sacrificio”: un superamento di sé e dei propri limiti per raggiungere una meta desiderata.
Ma c’è dell’altro, secondo il cardinale. Il calcio “insegna soprattutto un disciplinato affiatamento: in quanto gioco di squadra costringe all’inserimento del singolo nella squadra. Unisce i giocatori con un obiettivo comune”.
Fa capire dunque che l’ “io” si realizza e trova la felicità dentro un “noi”, dentro una comunità umana.
Queste caratteristiche umane sono così naturalmente cristiane che forse spiegano il motivo per cui negli oratori e nelle parrocchie è sempre stato presente il campetto di calcio.
E spiegano perché così spesso le squadre di calcio sono nate dagli oratori e tanti giocatori vengano da lì e spesso continuino a manifestare la loro religiosità.
Ultimo della lunga serie è lo stesso Mario Balotelli che ha imparato a calciare nell’oratorio S. Andrea di Concesio.
L’altro ieri don Mario Cotelli, il parroco che ha visto crescere il campione, ha detto a un giornalista: “L’ultima volta che Mario è venuto a salutarci ci siamo raccontati tante cose… E alla fine ricordo di avergli detto ‘mi raccomando, sii bravo, sii in gamba, sii prima di tutto uomo, e – ho aggiunto – ricordati sempre di Dio che ti ha dato il tuo grande talento’. E lui mi ha risposto: ‘Don, ogni giorno io mi ricordo di Lui, ogni giorno Lo prego e Lo ringrazio’…”.
Certo, il calcio poi, specialmente in tornei internazionali come il campionato del mondo o quello europeo, si carica pure di contenuti legati ai colori nazionali.
Ma anche questo aspetto – che a volte può provocare volgari intolleranze nazionalistiche – è invece prezioso perché la “leale rivalità” in un gioco di cui si condividono le regole comuni – come dice Ratzinger – insegna il rispetto e il riconoscimento dell’altrui valore agonistico.
Un sano orgoglio nazionale vive bene in una pacifica e festosa comunità di popoli.
E’ vero che il calcio può anche essere “inquinato da uno spirito affaristico che assoggetta tutto alla cupa serietà del denaro”, ma – obietta il cardinale – neppure questo “mondo fittizio” del denaro “potrebbe esistere senza l’aspetto positivo che è alla base del gioco: l’esercitazione alla vita e il superamento della vita in direzione del paradiso perduto”.
Dunque Ratzinger sostiene che “se andiamo in profondità, il fenomeno di un mondo appassionato di calcio può darci di più che un po’ di divertimento”, può insegnarci che “l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà. La libertà si nutre però della regola, della disciplina, che insegna l’affiatamento e la rivalità leale”.
Insomma è una scuola di vita. Per gli uomini e per i popoli.
Antonio Socci