Sabato scorso sono rimasto colpito da un articolo di Gian Micalessin sul Giornale che rievocava la storia di Anas el Abboubi, nome di battaglia Anas al-Italy, un italo-marocchino che ha trascorso l’infanzia e la giovinezza a Vobarno, in provincia di Brescia. L’agosto dell’anno scorso questo 21enne è partito per combattere il jihad in Siria, nei ranghi dell’Isil, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante assurto agli onori e ai disonori delle cronache dopo i recenti clamorosi successi militari in Iraq e i massacri di soldati disarmati che si erano arresi.
Anas fino a pochi anni fa era il tipico esemplare di ragazzo immigrato che fa di tutto per integrarsi coi giovani del paese in cui la sua famiglia è andata a vivere e che mantiene un tenue legame identitario con le tradizioni della famiglia e del popolo da cui proviene. Che non vuole rinunciare alle radici islamiche, ma nemmeno all’edonismo e all’apparente libertà della condizione giovanile in Occidente. Compendio delle sue contrastanti aspirazioni era stato un reportage apparso nientemeno che su Mtv nel marzo del 2012 intitolato “Nel Ritmo di Allah: La storia di Mc Khalifh”, dove Anas veniva lungamente intervistato e si presentava come un aspirante rapper capace di esprimere la rabbia giovanile da musulmano cresciuto in un paese europeo. Scrive Micalessin: «Anas si ubriaca, fuma spinelli, fa del suo peggio per somigliare ai coetanei italiani. Ma non basta. “Amo il tricolore, amo l’Italia” racconta Anas accusando però gli italiani di rifiutarlo. “È un blocco nella tua vita, sei sporco per loro”. Da quell’intervista inizia la trasformazione. Aboliti alcool, musica e spinelli abbraccia il Corano, si tuffa, nonostante l’arabo stentato, nella lettura dei siti islamici più estremisti». Fino alla partenza come volontario jihadista per la Siria, dove quasi sicuramente Anas ha perduto la sua giovane vita: la sua pagina di Facebook, aggiornata con foto scattate nella regione di Aleppo e commenti militanti, si interrompe bruscamente con un ultimo messaggio il 28 gennaio scorso. Dopo di allora, più nulla.
Ho visitato la pagina Facebook di Anas, ho scorso le foto dei suoi album. Ne ho condivisa e commentata una sulla mia pagina personale. Nell’immagine si vede lui in posa insieme a tre compagni d’armi più o meno della stessa età, vestiti con la divisa nera di Isil, una bandiera dello Stato islamico e copie del Corano a decorare il tutto. Ho scritto: «Quello che punta il dito verso l’obiettivo del fotografo è Anas al-Italy, ex rapper italo-marocchino, volontario jihadista per l’Isil in Siria. Ha ucciso e quasi certamente è stato ucciso. Se mi avesse incontrato quando ero in Siria, avrebbe ucciso pure me, per quello che ho scritto e per quello che non ho scritto. Eppure guardandolo in volto mi sento in colpa come un padre che non ha saputo fare abbastanza per insegnare a un figlio come si fa a vivere, e per cosa vale la pena veramente morire, dando la propria vita senza prendere quelle altrui. E adesso non c’è più altra speranza se non quella dell’eternità».
I commenti alla foto e al mio testo e le condivisioni sono stati numerosi e vari. C’è chi ha scritto di comprendere i miei sentimenti e di sperare che la misericordia di Dio conceda ad Anas di partecipare alla Verità, e chi invece non ha accettato che io potessi provare pietà per il mio potenziale assassino, e ha espresso soddisfazione per la sua morte e per quella degli altri che hanno scelto di imbracciare le armi. C’è stato anche il laico indagatore che ha scritto: «Perché, se è una speranza, voi cattolici la chiamate “Verità”?».
Non mi sembra che piangere per il mio assassino (potenziale) sia un atteggiamento difficile da capire, che necessiti di spiegazioni, oppure al contrario che sia un indice di santità e di amore cristiano ammirevoli. Dopo avere richiamato in settimana il comandamento dell’amore per il nemico, domenica papa Francesco ha riconosciuto che è davvero difficile da praticare. Ha ragione. Ma provare pietà per la morte di un ragazzo che ha la stessa età di mio figlio, che ascoltava la stessa musica e che – l’ho scoperto visitando la sua pagina Facebook – leggeva gli articoli di tempi.it sulla Siria e sui jihadisti, no, non dovrebbe essere difficile. L’amore per i nemici richiede una Grazia straordinaria, che possiamo invocare nella preghiera e che non possiamo darci da soli; la pietà per il nemico, che sorge quando restiamo colpiti dalla sua debolezza, è qualcosa proprio della natura umana. Si tratta semplicemente di non respingere la Grazia creaturale ordinaria, quella che viene dal semplice fatto di essere stati creati da Dio. La speranza che nell’eternità diventi possibile quell’accoglienza reciproca e quella pienezza di rapporto fra creature che nella vita terrena non sono state possibili, anche questa è un’esigenza naturale, un’esigenza della ragione e del cuore.
Gli atei e gli agnostici, compresi pesi massimi intellettuali come Marx, Engels e Freud, si ostinano ad affermare che la fede nella vita ultraterrena è un’illusione con cui gli esseri umani esorcizzano la paura della morte, cioè della propria fine come individui. Dimostrano di non aver colto quel che di più profondo c’è nel cuore umano. Un ateo che ha capito la natura profonda del desiderio e della speranza di eternità che appartengono all’uomo c’è stato. Si chiamava Max Horkheimer, un filosofo neo-marxista della scuola di Francoforte, che nel suo Nostalgia del Totalmente Altro ha scritto: «La teologia è la speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola».
C’è un desiderio di giustizia in noi che va dalle dinamiche dei rapporti personali più intimi fino a quelle che dominano i rapporti politici ed economici a tutti i livelli. Desideriamo che sia rettificata l’ingiustizia di un figlio morto troppo giovane, di un matrimonio che non ha resistito e si è spezzato, di un amore grande e vero per una donna che è andato perduto senza compiersi, di un rapporto padre-figlio o madre-figlia andati alla deriva nell’irresponsabilità e nel rancore. Come pure l’ingiustizia della morte per fame, per guerra, per genocidio e per tratta schiavista, della libertà negata e della prigione per chi non si inchina al potere, dello sfruttamento economico che ruba agli sfruttati il presente e il futuro, dell’aborto legale che non riconosce alcuna dignità alle vite dei più indifesi. Senza la speranza dell’eternità, tutte queste ingiustizie e altre ancora sarebbero definitive, irreparabili. Senza la speranza dell’eternità, dovrei accettare come irredimibile l’ingiustizia per cui Surur, ragazza cristiana 16 enne di Baghdad che si rifiutava di andare a scuola portando un velo islamico sopra i capelli scuri, è stata violentata per un’ora e sgozzata dentro casa mentre i genitori si trovavano nella stanza di fianco. Solo la speranza nel ritorno definitivo di Cristo mi permette di riprendere il fiato davanti a questa atrocità, mi permette di prendere sonno la notte. E di mostrare la sua foto, raccontare la sua storia quando mi invitano a parlare dei cristiani perseguitati nel mondo.
Per Anas provo un sentimento molto simile. Non riesco ad accettare che la parabola della sua vita si sia conclusa a quel modo, senza che nessuno abbia potuto farci nulla. Che la sua disponibilità al sacrificio di sé per affermare una giustizia più grande, per riconoscere una Verità che ci precede, si sia risolta in un exploit di violenza inflitta e patita, all’insegna di quella frase agghiacciante contenuta nel suo ultimo post: «La vittoria è nella morte».
Sì, affidare e affidarsi alla misericordia divina è giusto ma non basta. Fatti come questo ci interrogano su quello che potremmo e dovremmo fare perché la vita dei giovani come Anas non venga traviata da ideali falsi, e la loro vitalità e disponibilità al sacrificio non venga dirottata verso cause che non le meritano. Occorrerebbe partire da uno sguardo positivo su questi giovani, comunicare loro che li si vuole valorizzare, che gli si vuole bene. Ma da dove partire esattamente? Mi ha colpito una frase del vescovo di Costantina, Paul Desfarges, che un amico missionario mi ha recentemente trasmesso: «In un momento tentato dalla violenza interreligiosa, la nostra Chiesa d’Algeria è portatrice di una testimonianza non di tolleranza o di semplice coesistenza tra cristiani e musulmani, ma di incontro spirituale che va fino all’ammirazione della fede dell’altro, come si vede in Gesù meravigliato della fede del Centurione o della Cananea».
Ammirare la fede dell’altro, diversa dalla nostra. Ammirare la sua rinuncia a se stesso, alla vita comoda, al consenso sociale, agli idoli (il potere, il denaro, la lussuria) per un ideale più grande. Non è atteggiamento che vada di moda oggi. A parole si accettano tutte le diversità, comprese quelle basate sulle fedi religiose: le si definisce un arricchimento della convivenza sociale. Ma nei fatti, basta che qualcuno cerchi di vivere coerentemente la sua fede nello spazio pubblico, che giudichi la realtà sociale, politica, culturale secondo l’esperienza di fede che fa, che si impegni al servizio del bene comune con la sua ragione illuminata dalla fede, e subito scattano le accuse: integralismo, fanatismo, riduzione della fede a ideologia, ecc. In queste accuse può esserci una percentuale di verità, più alta o più bassa a seconda dei casi. È così facile cadere nella presunzione, confidando nell’opera delle proprie mani più che in quella di Dio, nell’idolatria, amando quel che si fa più di Colui che rende possibile il fare, nella strumentalizzazione di Dio e della fede per affermare in realtà se stessi e i propri progetti, o la propria immagine di sé, o per camuffare le nevrosi e le insicurezze che non si vogliono ammettere. Ma queste sono le stesse tentazioni e gli stessi peccati di cui, normalmente, sono sporche le coscienze di coloro che puntano il dito contro questo o quel gruppo di credenti. Ha scritto Jean Baudrillard: «Ideologia è ciò che il mio avversario pensa». Quando qualcuno provoca la nostra coscienza rendendo una testimonianza che noi non abbiamo il coraggio di rendere, quando ci fa venire il sospetto che stiamo vivendo il nostro cristianesimo in modo molto borghese, o che abbiamo levigato ben bene la fede, smussando le asperità per renderci accettabili agli occhi del mondo (di questo mondo, quello dell’anno 2014), la prima tentazione è quella di disprezzare e svalutare l’impegno di costui.
Gli esempi di questa dinamica sono innumerevoli, ma uno in particolare mi addolora. Da tempo le critiche più astiose e delegittimanti nei confronti di realtà come il Movimento per la vita o come le Sentinelle in piedi vengono non dal mondo laicista, ma dall’interno della Chiesa cattolica, da pastori e laici impegnati che alzano la voce e sollevano il dito indice per ammonire i cristiani che vorrebbero difendere con azioni politiche i bambini non nati e quelli che nascerebbero senza padre o senza madre se passassero certe leggi, che il loro impegno è equivoco, ideologico e altro ancora. Davvero il diavolo non riposa mai, mi viene da pensare. Se attorno a questioni monumentali come l’aborto, l’abolizione della differenza sessuale, la generazione umana trasformata in produzione umana, la diseducazione sessuale dei bambini e degli adolescenti, ecc. i cristiani riescono a dividersi e ad alimentare profonde inimicizie dentro la Chiesa stessa, i casi possono essere solo due: o i cristiani sono molto stupidi, o il diavolo è molto furbo. Sento già chi dice: «Tutte e due le cose». Può darsi.
Non intendo analizzare il problema. Vorrei solo richiamare tutti all’atteggiamento che mons. Desfarges propone alla luce dell’esperienza della sua piccola Chiesa: ammirare la fede dell’altro. Cioè ammirare ciò che, nella fede dell’altro, indica la sua obbedienza a una verità più grande di sé, delle proprie idee, dei propri sentimenti, della propria convenienza. Solo quando avremo credibilmente dimostrato che ammiriamo la fede che è in lui, potremo cominciare a formulare le critiche, le obiezioni e le confutazioni che ci sembra meritare. Io credo, con mons. Desfarges, che questa ammirazione per la fede dell’altro cambi sia lui che noi, o almeno contenga il potenziale di un cambiamento: potenzialmente purifica la fede del nostro interlocutore e la nostra. Tenderei ad applicare la cosa a tutti coloro che sacrificano sé per qualcosa di più grande di sé: dalle Sentinelle in piedi fino ai jihadisti. Meglio, in quest’ultimo caso, se non ancora jihadisti di fatto ma sulla strada per diventarlo. Quando ancora era Mc Khalif, rapper italo-marocchino, Anas si lamentava degli sguardi sospettosi e commiserevoli con cui veniva guardato per la sua fede musulmana. Premesso che chi crede, se crede davvero, in caso di persecuzione o discriminazione non può e non deve cedere al vittimismo e ai cattivi sentimenti che da esso conseguono, ma deve mostrare tutta la virilità o femminilità che Dio ha infuso in lui/lei; premesso questo, sono certo che sentirsi riconosciuto dagli altri nella forma dell’ammirazione per la fede che professava avrebbe aiutato Anas a vivere e a far vivere per la verità piuttosto che a uccidere in nome della verità.
Per correggersi occorre sentirsi stimati. Chi non si sente stimato non può che ribellarsi: deve reagire alla disistima dell’altro, deve dimostrargli che fa sul serio, che ha le palle a differenza del suo critico. Arrivando a scrivere cose terribili come «la vittoria è nella morte». Terribili, ma non irredimibili. Nel numero di Tempi che sta per andare in edicola ho scritto che il famoso e terrificante slogan jihadista «vinceremo perché noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita» non ha niente di specificamente maomettano, non essendo altro che la sintesi del pensiero di Hegel nella Fenomenologia dello spirito sul tema della dialettica servo-padrone: chi è subalterno ritrova la libertà nel momento stesso in cui non ha più paura della morte di fronte al potere superiore che lo ha subordinato. A quel punto i ruoli si invertono: potente e ricco quanto si vuole, chi ha paura della morte è meno libero di chi quella paura l’ha vinta.
Anche un ateo profondamente religioso come Vasilij Grossman, uno che ha raccontato la battaglia di Stalingrado, ha saputo difendere la nobiltà della morte umana, diversa da qualunque altra morte per la possibilità che ha l’uomo di viverla con consapevolezza. In quella pagina di Vita e destino dove descrive i pensieri di chi sta tornando a vivere a Stalingrado dopo la battaglia: «Avrebbero comunque vissuto da uomini e da uomini sarebbero morti e chi era già morto era comunque morto da uomo: è questa la vittoria amara ed eterna degli uomini su tutte le forze possenti e disumane che sempre sono state e sempre saranno nel mondo, su ciò che passa e su ciò che resta».
Ma per noi che ci diciamo cristiani il punto di riferimento è la citazione da L’annuncio a Maria di Claudel: «Forse che il fine della vita è vivere? Non vivere, ma morire e dare in letizia quel che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna!». Dare la propria vita senza prendere quella altrui. Questo lo può capire e fare proprio solo chi si sente voluto bene da qualcuno. Non sentimentalmente, ma profondamente: volere bene a qualcuno significa essere disposti a pagare un prezzo per quel voler bene, a rischiare sé per un’altra persona.
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