CANNABIS AD USO TERAPEUTICO ? NO GRAZIE!
LA NORMA DIVENTEREBBE CULTURA
Da tempo è risaputo che non esistono droghe leggere e pesanti, ma una dipendenza più o meno radicata che richiede un lungo percorso di recupero. E’ altresì noto che il principale agente psicoattivo della cannabis è il THC e che la percentuale di THC presente nell’hashish e nella marijuana in commercio vent’anni fa era molto più bassa rispetto a oggi (dal 5-10% agli attuali 40-50%).
Numerosi studi poi hanno evidenziato la pericolosità del THC, che aumenta i rischi di:
◦ danni al sistema immunitario,
◦ anomalie neonatali,
◦ infertilità,
◦ malattie cardiovascolari (infarto)
◦ cancro ai testicoli.
La marijuana, inoltre a differenza del tabacco, può provocare alterazioni cerebrali e conseguenze a medio e lungo termine sulla funzionalità del cervello. La cannabis danneggia i polmoni in maniera più incisiva del tabacco; indebolisce le facoltà cognitive; provoca quindi un aumento degli incidenti stradali. L’uso di marijuana si ripercuote sui rendimenti scolastico e lavorativo e sui rapporti interpersonali. Aumenta i casi di schizofrenia. La ricerca clinica ha dimostrato che per i consumatori abituali aumenta di sei volte il rischio di patologie psichiatriche.
Nonostante tutto quanto in premessa, nel contesto di studiato clima di “distrazione di massa” operato dai media e dai social in cui viviamo immersi, la Camera dei Deputati ha approvato il 20.10.17 il D.D.L.2947, finalizzato ad introdurre una legge volta a regolamentare l’uso di medicinali di origine vegetale a base di cannabis.
Nel dissenso dei promotori, rappresentanti di quel radicalismo di massa giunto nei gangli del potere legislativo, si è consumata l’ennesima farsa della loro tipica tecnica, quella dei “due passi avanti ed uno indietro”; in altri termini si è ulteriormente sfondata la linea difensiva del quadro legislativo, ove ancora si considerava dannoso per la salute l’utilizzo della cannabis.
Sarà difficile per ognuno di noi qualora il Senato approvasse definitivamente il D.D.L. 2947, far comprendere a priori che la cannabis fa male. La risposta sarebbe: ma se la vendono in farmacia? inizierebbe allora una difficile discussione, in cui si potrebbe rispondere che molti farmaci chimici e non, venduti in farmacia sarebbero dannosi se assunti, ma non prescritti etc…. ma il punto vero risiede nel fatto che si è rotto “l’argine”.
Gli anni del post 68’, data in cui è iniziata la sistematica distruzione della famiglia ed in ultima analisi dell’uomo, attraverso legislazioni contro la vita, quali la legge che ha introdotto l’aborto, ci hanno insegnato il significato del “due passi avanti ed uno indietro”.
Si punta infatti ad introdurre anche se in forma mitigata una prassi, per poi giungere al più presto ad un’affermazione completa del costume.
Così è stato per divorzio, aborto e così potrebbe essere per droga ed eutanasia.
Il DDL 2947 ha le solite equivoche e mistificanti caratteristiche, ove all’art. 1 per es. recita che si vuole garantire “l’equità nell’accesso a tali medicinali da parte dei pazienti mediante la fissazione di criteri uniformi sul territorio nazionale”…” a promuovere la ricerca scientifica sui possibili ulteriori impieghi della cannabis a uso medico”…” semplificare le modalità di assunzione dei medicinali a base di cannabis da parte dei pazienti.”.
Equità, ricerca scientifica, semplificazione, rassicuranti parole utili per nascondere la rinuncia della potestà educativa e di tutela sociale che risiede nelle prerogative della società e dello stato.
L’art. 2 del DDL tratta della “ Definizione di uso medico” ove si può leggere la generica definizione “Ai fini della presente legge, si intende per «uso medico» l’assunzione di medicinali a base di cannabis che il medico curante prescrive dopo la valutazione del paziente e la diagnosi, per una opportuna terapia” una c.d. norma “in bianco” che solo di facciata è giustificata dalla criptica e misteriosa lettura dell’art. 3, che recita : “Il medico può prescrivere preparazioni magistrali a base di cannabis per la terapia del dolore, ai sensi della legge 15 marzo 2010, n. 38”.
Verificando il contenuto di quest’ultima, si scopre che si tratta della legge titolata:” Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” che all’art. 2 viene definita ai commi b) e c) che si riportano di seguito, la cui lettura mostrerà l’ampiezza valutativa e discrezionale fornita ai medici per la distribuzione della cannabis.
“ b) «terapia del dolore»: l’insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore;
- c) «malato»: la persona affetta da una patologia ad andamento cronico ed evolutivo, per la quale non esistono terapie o, se esse esistono, sono inadeguate o sono risultate inefficaci ai fini della stabilizzazione della malattia o di un prolungamento significativo della vita, nonché la persona affetta da una patologia dolorosa cronica da moderata a severa”.
In conclusione si deve convenire che diminuire la disapprovazione sociale – esito scontato anche con una sola legalizzazione dell’uso terapeutico – non potrà che aumentare l’uso di cannabis. Si provocherà inevitabilmente infatti la diminuzione della percezione del rischio legato al consumo della marijuana. Legalizzare anche parzialmente significa imboccare la strada per rendere socialmente accettato e condivisibile una legalizzazione piena dell’utilizzo della cannabis.
Benedetto Tusa