Ecco la lucida analisi dell’Osservatorio Cardinale Van Thuan che volentieri riportiamo sul tema in oggetto.
Cosa manca al 5×1000 per essere veramente per il bene comune
di Giorgio Mion
Il cosiddetto “cinque per mille” costituisce un’esperienza, in vigore in Italia secondo un regime variabile e sperimentale da meno di dieci anni, avente come scopo quello di introdurre uno strumento di sussidiarietà fiscale nell’ambito del sistema tributario italiano.
Introdotto sperimentalmente dalla legge finanziaria 2006, esso prevede che i cittadini – a parità di contribuzione in termini di imposte dirette sul reddito – possano destinare il 5×1000 della propria imposta secondo finalità sociali; in particolare, la stessa norma istitutiva prevedeva quattro possibili direttrici di impiego di tale porzione del gettito fiscale:
«a) sostegno del volontariato e delle altre organizzazioni non lucrative di utilità sociale [… ] delle associazioni di promozione sociale iscritte nei registri nazionale, regionali e provinciali […] e delle associazioni e fondazioni riconosciute;
b) finanziamento della ricerca scientifica e dell’università;
c) finanziamento della ricerca sanitaria;
d) attività sociali svolte dal comune di residenza del contribuente».
La ratio della norma appare quella di spostare il centro politico-decisionale in ordine al perseguimento di interessi di ordine sociale: i decisori non dovrebbero più essere lo Stato e gli enti pubblici, bensì i singoli cittadini. L’idea, dunque, è quella di introdurre un elemento di sussidiarietà non tanto nel meccanismo di finanziamento – che rimane centralizzato, atteso che rimane lo Stato il soggetto che raccoglie l’imposta e la elargisce secondo gli obiettivi individuati – quanto in una dimensione fondamentale delle scelte di finanziamento: l’individuazione del beneficiario.
La norma va a sostegno del terzo settore (organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, ONLUS, ecc.), ma anche ad altri centri di spesa “sociale” di natura giuridica prevalentemente pubblica (università, centri di ricerca medica, comuni, ecc.); formalmente, dunque, lo strumento appare interessante, soprattutto se inserito nel contesto tributario italiano. Se, infatti, esso potrebbe apparire banale ed insufficiente all’interno di sistemi maggiormente liberisti, non va dimenticato che la struttura dello Stato italiano – e, di conseguenza, del “suo” fisco – è ancora fortemente connotata in senso centralistico-paternalistico, con una struttura di Stato sociale pervasiva, finanziata prevalentemente con l’imposizione fiscale. Anche la regionalizzazione di molte competenze – dalla sanità al volontariato – ha confermato, nelle evidenze fattuali, la preferenza storica per i sistemi accentrati a finanziamento pubblico rispetto sia a meccanismi di mercato di impostazione liberista sia a sistemi di sussidiarietà verticale ed orizzontale.
Dunque, il “cinque per mille” – almeno nella sua enunciazione ideale – presenta tratti di forte innovatività per il nostro Paese; va anche sottolineato come, alla sua introduzione sperimentale nel 2006, era lecito attendere ulteriori successivi passi strutturali verso un nuovo approccio verso il terzo settore e, più in generale, verso i “meccanismi” di generazione delle preferenze pubbliche in tema di bene comune. Senza voler addossare al “cinque per mille” responsabilità maggiori di quelle che un singolo provvedimento può ragionevolmente avere, è tuttavia necessario anticipare la conclusione del presente scritto: la travagliata storia del 5×1000 chiama in gioco non solo l’effettiva realizzazione di un sistema pubblico basato sul principio di sussidiarietà, ma lo stesso significato di bene comune.
Le condizioni che – idealmente – avrebbero dovuto realizzarsi, a giudizio di chi scrive, perché il 5×1000 rientrasse in un reale disegno di sussidiarietà sono diverse: innanzitutto, l’effettiva libertà dei contribuenti di scegliere “cosa” e “quanto” finanziare, mentre è evidente che essi possono condizionare la destinazione solo di una quota irrisoria delle risorse pubbliche – entro il tetto di spesa del 5×1000 del gettito della sola IRPEF – destinandola soltanto a ben precisi soggetti, che hanno passato il vaglio del controllo dell’autorità pubblica; quest’ultima, ovviamente, avrà, in precedenza, definito per i possibili destinatari dei requisiti di natura formale. Ciò sposta, inevitabilmente, l’ottica dalla sostanza – preferenze dei cittadini in ordine alla destinazione delle risorse sociali – alla forma, tipico garante dell’interesse pubblico utilizzato dalla politica per evitare i propri stessi eccessi.
La seconda condizione avrebbe dovuto riguardare la posizione dello Stato che avrebbe dovuto configurarsi come un soggetto esterno al processo di finanziamento, tale da assumere rispetto a quest’ultimo una terzietà di garanzia di efficienza ed efficacia. Diversamente, lo Stato è il soggetto centrale del 5×1000, che interviene ex ante definendo misura e soggetti del finanziamento, lasciando così al contribuente una libertà di scelta molto ridotta e vincolata.
In terzo luogo, l’adozione del processo di sussidiarietà avrebbe richiesto di sovvertire il tradizionale ordine delle priorità di intervento: in Italia, infatti, avendo optato da tempo per un sistema centralistico-paternalistico – non tanto in termini formali, quanto nella realtà fattuale –, è tradizionalmente lo Stato che decide quali siano le aree di interesse pubblico/sociale, stabilendo tra di esse una gerarchia e definendo le risorse disponibili per il perseguimento di tali obiettivi. Il meccanismo elettorale compensa solo parzialmente questa centralizzazione, perché la relazione tra scelta elettorale e conseguenti scelte politiche è sfocata e progressivamente meno incisiva. Il 5×1000 rientra pienamente in questo disegno, perché il contribuente non può esprimersi in ordine a quale sia l’interesse pubblico, ma solo scegliere tra i diversi ambiti di interesse predefiniti dallo Stato e, in essi, orientare il finanziamento a questa o quella specifica organizzazione. Si tratta, dunque, di un disegno normativo pienamente coerente con la tradizione, che non ridefinisce i luoghi decisori, ma li conferma appieno.
A questi problemi di progettazione che, da soli, mettono in dubbio la validità dello strumento dal punto di vista della riforma dello Stato e delle sue relazioni con il terzo settore, si aggiungono almeno due elementi fattuali – legati alla concreta realizzazione del 5×1000 nei suoi primi 7 anni di vita – che confermano l’imperfezione dello strumento e, soprattutto, l’insufficienza del disegno di fondo.
Il primo limite fattuale è legato alla burocratizzazione dell’intera procedura di accreditamento delle organizzazioni, di liquidazione del finanziamento e di rendicontazione; in particolare, va notato come quest’ultima fase del processo non abbia minimamente a che vedere con il “rendere conto” ai cittadini (cosa che, se l’organizzazione vuole, deve realizzare autonomamente utilizzando altri canali informativi), bensì soltanto con la chiusura formale-burocratica di una pratica amministrativa.
Il secondo limite fattuale concerne, invece, il “tetto” di spesa complessiva fissato annualmente dai Governi succedutisi negli anni nelle leggi finanziarie/di stabilità; infatti, la legge istitutiva (e la stessa formula di comunicazione “cinque per mille”) non fissava un importo complessivo delle somme destinate, bensì una percentuale di gettito destinabile. In altre parole, il monte complessivo del finanziamento avrebbe dovuto variare a seconda del complessivo gettito IRPEF: maggiore è l’imponibile dichiarato, maggiore l’imposta complessiva e maggiore la quota destinata secondo le preferenze dei cittadini. Tuttavia, esigenze di bilancio pubblico hanno indotto alla fissazione di un tetto al 5×1000, sicché la somma destinata complessiva indirizzata secondo le indicazioni dei contribuenti è sempre rimasta di molto al di sotto del 5 per mille del gettito complessivo IRPEF. Tale “tetto” è stato confermato da tutte le leggi di stabilità e, se non ci saranno improbabili stravolgimenti parlamentari, lo sarà anche nella legge per il 2014; a riprova di ciò c’è l’annuncio pubblico di un “grande successo” legato all’aumento del “tetto” … che resta, comunque, ampiamente al di sotto della più volte citata percentuale del gettito impositivo.
A tutto ciò si aggiunge, infine, la constatazione di quanto tutto il “gioco” avviato con la legge finanziaria 2006 abbia innescato un meccanismo di mercato del fund raising – che prevede, anche, investimenti pubblicitari ingenti da parte di alcune organizzazioni – che favorisce i grandi operatori del terzo settore, che possono, attraverso la più ampia disponibilità di risorse, attrarre ulteriori risorse con il 5×1000, a differenza delle piccole realtà locali, legate al “passaparola”. Questo non induce lo sviluppo della rete locale del terzo settore, che – paradossalmente – potrebbe trarre maggiore beneficio da un sistema di finanziamento pubblico centrato sulle competenze territoriali degli enti locali, piuttosto che da un – sicuramente imperfetto – meccanismo di mercato.
Tutto questo induce, in chiusura, a tornare al problema dell’individuazione del bene comune, espressione ben chiara nella Dottrina sociale della Chiesa, ma adottata anche con significati – e conseguenze – molto diverse nello spazio pubblico. Il “cinque per mille”, nei fatti, non è uno strumento utile a migliorare il processo decisionale orientandolo verso il bene comune; questo sia per i limiti strutturali e fattuali dello strumento poco sopra illustrati, sia per la sua filosofia di fondo, che sembra far coincidere il bene comune con una somma di scelte individuali, in un’ottica riduzionista. Inoltre, tali scelte non sono il frutto di una riflessione sociale e culturale da parte dei contribuenti, che – indicando il destinatario del proprio 5×1000 – solo raramente sono nelle condizioni di fare una scelta consapevole, mentre spesso sono abbandonati a logiche puramente mercatistiche. Di fatto, il 5×1000 funziona come qualsiasi processo di acquisto, dove – allo stato attuale dei mercati – solo pochi acquirenti sono informati e consapevoli, mentre molti scelgono sulla base di sensazioni e suggestioni indotte.
Giorgio Mion