«Il Califfato è un progetto totalitario dove Dio è invocato costantemente a parole e negato nelle azioni»
Marzo 3, 2015 Rodolfo Casadei
Intervista a Domenico Quirico, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, “Il grande Califfato”: «I musulmani non si oppongono veramente, ma non possiamo gettargli la croce addosso»
Leggere un libro di Domenico Quirico è come andare a porcini in un lussureggiante bosco del Piemonte o del Trentino. L’ambiente circostante è splendido, pini e latifoglie giocano coi raggi del sole che filtra nel sottobosco, germogli di piante e tronchi abbattuti e marcescenti si intrecciano nelle pieghe del terreno irregolare. Finché da sotto al tappeto di foglie morte spunta il re dei funghi, turgido e vistoso col suo gambo bianco e il cappello marrone o fulvo. Nei libri dell’inviato della Stampa i porcini sono i giudizi, le definizioni, i concetti che appaiono a sorpresa, man mano che le pagine sviluppano il racconto dei luoghi, degli incontri e degli avvenimenti.
Il grande Califfato è un percorso attraverso la geografia sfuggente dei luoghi dove il risorgere del Califfato si è preannunciato, annunciato e infine realizzato negli ultimissimi anni, cominciando da quel giorno da prigioniero in Siria, ad al Qusayr, quando per la prima volta il Quirico ostaggio dei jihadisti è stato messo a parte del “segreto”. Dopo quel giorno hanno preso senso fatti, persone e parole ascoltate in Nigeria, Mali, Algeria, Tunisia, Iraq, Libia, Somalia. Che integrano «il cuore di tenebra di una nuova fase storica, di un nuovo groviglio avvelenato dell’uomo e del secolo che nasce: il totalitarismo islamico globale», come scrive Domenico Quirico.
Prima che il Califfato venisse proclamato da al Baghdadi, varie persone, non collegate fra loro, ti avevano annunciato che la storica istituzione sarebbe risorta. Che cosa significa questo?
Significa che era un obiettivo progettato da lungo tempo. La creazione del Califfato è la ragione per cui così tanti stranieri sono andati a combattere in Siria. Prima dell’Isis, già Jabhat al Nusra, che è affiliata ad al Qaeda, dichiarava di avere questo obiettivo; e anche quelli delle brigate Faruk, che sono considerati islamisti moderati, parlavano della stessa cosa.
Dei militanti del Califfato tu scrivi che «sono spesso ignoranti e di vedute ristrette, uomini semplici ulteriormente semplificati con istinti primordiali acuiti dalla forza degli eventi». Allora perché ci fanno tanta paura?
Perché fra loro ce ne sono tanti che non sono né primordiali, né insipienti. Ci sono giovani laureati di materie scientifiche, c’è un teologo ben formato come al Baghdadi. La cosa che ci spaventa sono le loro biografie svuotate: la loro vita inizia quando vanno a combattere. Sia per un lavaggio del cervello che per una loro scelta. Cominciano a vivere nel momento in cui diventano rivoluzionari di professione.
Scrivi anche che «I massacri di uomini presuppongono da parte di coloro che li compiono uno sforzo fisico e soprattutto psicologico molto forte». Ma nei filmati sembra che lo facciano con entusiasmo e senza nessun tipo di remora morale.
Perché li vediamo quando hanno già compiuto quello sforzo, se lo sono già lasciati dietro. Arrivare a uccidere è complicato per chiunque. C’è un lungo lavoro da fare su di sé per convincersi che è necessario, che è giusto, che non ci sono alternative. Si può uccidere per un gesto impulsivo, ma diventare assassini consapevoli, è un processo complicato e lungo. Alla fine del quale, uccidere diventa semplice e automatico.
Cosa possiamo aspettarci dai musulmani per bene in questa guerra contro dei fanatici musulmani?
Secondo me molto poco. Non perché io non apprezzi la loro inclinazione a praticare una religione non brutale. Ma semplicemente perché nella storia costantemente le maggioranze tiepide e normali sono finite a tirare il carro delle minoranze dispotiche e feroci. Per varie ragioni: per paura, per interesse, per quieto vivere. I musulmani non si oppongono veramente, ma non possiamo gettargli la croce addosso: fare una manifestazione contro l’Isis è pericolosissimo non solo a Mosul, ma anche a Tunisi. Ci sono quartieri di Tunisi dove è altrettanto pericoloso!
Tu dici che c’è un senso musulmano del tempo che è diverso dal nostro e che spiega molte delle cose che stanno accadendo. Cioè?
È la spiegazione principale di quello che sta accadendo. Noi occidentali viviamo nel presente e nel futuro, e abbiamo un rapporto di tipo archivistico col passato. Invece per gli arabi il passato è presente, è cronaca di oggi. Dà loro la sensazione di un fatto contemporaneo. L’umiliazione per il colonialismo e per la sconfitta degli imperi musulmani è vissuta con la rabbia di un’umiliazione inferta oggi. Da qui nasce l’ammirazione per coloro che oggi cercano di ribaltare i rapporti di forza, che dimostrano che l’Occidente non è necessariamente vincente.
Al Baghdadi è un prodotto genuino o è una marionetta sfuggita di mano agli americani, come scrive qualcuno?
Non è importante. La biografia di al Baghdadi può essere lacunosa, ma lui è solo un nome prestato a un’istituzione. Gli assatanati della dietrologia sono ridicoli: se gli americani fossero così diabolici e lungimiranti come loro li immaginano, non si capisce come facciano ad accumulare insuccessi e figuracce da cinquant’anni a questa parte, dal Vietnam all’Iran, dall’Afghanistan all’Iraq. Senz’altro il Califfato non è un progetto americano. Al Qaeda l’hai abbattuta eliminando Osama Bin Laden, ma con al Baghdadi non funziona così: puoi ucciderlo, gli succederà un altro califfo.
Effettivamente c’è un fatto che sorprende: il Califfato produce video a gogò, propaganda dell’orrore e propaganda della vita idilliaca sotto la sharia integrale. Ma di al Baghdadi hanno diffuso un solo video, e c’è chi dubita che si trattasse veramente di lui.
Per il motivo che ti ho detto: è l’istituzione che attira e seduce, non il suo rappresentante. Il culto della personalità di al Baghdadi è irrilevante ai fini della promozione del Califfato.
Tu conosci bene la Libia. Perché anche lì l’Isis e gli altri jihadisti sono cresciuti così impetuosamente?
Per la grande trovata di federare attorno a un’idea centrale rivolte locali che hanno motivazioni locali, ma che si collegano volentieri alla sigla centrale perché da essa traggono nuova forza. È il principio del Comintern, della rivoluzione mondiale che aveva Mosca al centro e si nutriva delle insurrezioni locali, manovrate da agenti del Comintern per farle convergere con la strategia di Mosca. Il teorico del Comintern “verde” è Abdullah Azzam, l’uomo che è alle origini di al Qaeda e che fu subito assassinato nel 1989. Ma la sua visione si è realizzata.
A proposito dei musulmani dei nostri paesi che partono per combattere con l’Isis scrivi: «Ci illudevamo di sedurli, e invece è come se un mattino si fossero svegliati e di due mondi possibili ne fosse rimasto, di colpo, uno solo, il ritorno alla terra amata o maledetta». Perché è fallita la seduzione?
Sì, i due modelli di integrazione, quello francese e quello britannico, sono falliti, ma dire questo non basta: il fallimento poteva spingere gli immigrati musulmani nelle braccia della malavita, o della droga. Invece partono volontari per il jihad. È un fatto in relazione con l’opacità della nostra civiltà, con l’intercambiabilità di tutti i valori. Da noi ogni giorno l’uomo si trova di fronte alla fatica di scegliere fra valori che stanno tutti sullo stesso piano. L’islam nella versione prosciugata del salafismo offre alla generazione cresciuta nel mondo dei valori intercambiabili la possibilità di imboccare la via di qualcosa di semplice e preciso: la via del bene contro la via del male. Una semplificazione esaltante e che funziona.
Hai scritto anche che useranno contro di noi gli aspiranti emigranti, quelli che adesso salgono sui barconi per venire da noi. Il governo italiano smentisce che stiano arrivando terroristi.
Non ho detto questo. Noto che per la prima volta l’islam radicale ha sotto mano una massa di centinaia di migliaia di persone la cui condizione umana è ridotta all’istinto di sopravvivenza, svuotate della loro identità. È una massa gigantesca di potenziali reclute. E siccome ho toccato con mano la rapidità con cui i jihadisti trasformano gli esseri umani, mi domando se queste migliaia di uomini vuoti del loro passato non diventeranno un pericolo.
Alla fine il Califfato conquisterà l’egemonia politica e culturale sulle masse musulmane oppure no?
Forse lì dove si è installato no, la Mesopotamia è difficile da tenere militarmente. Ma la realtà del Califfato, non in quel luogo ma in molti altri luoghi nel mondo, è un problema che ci troveremo davanti per decenni. Vivremo un’epoca di guerre permanenti innescate l’una dall’altra, dove il tema di fondo sarà lo scontro fra l’islam radicale e l’Occidente coi suoi alleati musulmani. Si esaurirà la fase iracheno-siriana ed emergeranno le fasi saheliano-africana, maghrebina, libica, egiziana, eccetera. Ma dentro a una continuità, perché il progetto totalitario del Califfato è un progetto che si muove nel tempo. È il tentativo di creare un’amministrazione islamista, che ora esiste: ogni giorno che passa è un successo per il Califfato, perché entra nelle teste dei musulmani che vivono lì e di quelli che osservano dall’esterno.
A un certo punto te la prendi con gli islamologi alla Gilles Kepel, che annunciavano l’imminente secolarizzazione dell’islam: «Questi Candide abbarbicati alle loro cattedre universitarie, ai loro convegni negli alberghi a cinque stelle, agli assegni dei loro editori: saltimbanchi dell’ottimismo politicamente corretto, che paghiamo perché ci dicano quello che vogliamo sentire».
La loro colpa è di essersi inventati un islam che non esisteva, o esisteva molto parzialmente. Noi volevamo sentirci dire che in quei mondi c’era una grande volontà di dialogare con noi, e gli islamologi hanno dato una patente accademica al nostro desiderio. Scelte politiche sbagliate sono state ispirate da queste letture accademiche.
In tutto questo, dov’è Dio? Un Dio che non chieda sacrifici umani come quello dei jihadisti? Tu dici di averlo scorto fra le rovine della cattedrale cattolica di Mogadiscio.
E in molti altri luoghi dove noi pensiamo che non dovrebbe esserci. Oggi non c’è posto al mondo dove Dio sia così costantemente invocato a parole e negato nelle azioni come nei luoghi dove si svolge il dramma del Califfato. L’ossessione di Dio e la sua negazione. I jihadisti si sentono per davvero dei santi, nel mentre che sono degli assassini. Ma Dio è presente nell’unica cosa che per me conta: nella sofferenza, nel dolore delle vittime. La vera presenza di Dio è in quella sofferenza. Dio è presente sopra tutta la superficie gigantesca del dolore che c’è in quei luoghi. Lì dove è invocato, Dio non c’è; ma lì dove apparentemente è assente, Dio c’è. Nelle vittime.
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