Del cattivo uso della sociologia

DEL CATTIVO USO DELLA SOCIOLOGIA

Caro Magister,

Seguo con attenzione il Suo blog e ho notato i riferimenti ai dati ISTAT sulla pratica religiosa e ad altri dati, accompagnati da diverse interpretazioni dei Suoi cortesi interlocutori. Come sociologo, sono preoccupato dall’uso improprio della sociologia come arma impropria nella contesa fra sostenitori e avversari di Papa Francesco. Alcuni di coloro che intervengono sembrano citare dati senza comprendere esattamente di che cosa si stia parlando.

Comincio da un problema più semplice, i partecipanti agli incontri a Roma con il Santo Padre (tutti, non solo le udienze del mercoledì) forniti dalla Prefettura della Casa Pontificia:

2008 – 2.215.000
2009 – 2.243.900
2010 – Dato non fornito
2011 – 2.553.800
2012 – 2.351.200
2013 – 6.623.900
2014 – 5.916.800
2015 – 3.210.860

I dati del 2013 riguardano solo il periodo dopo l’elezione di Papa Francesco. Non sono in grado di rispondere al quesito su perché le statistiche del 2010 non siano state a suo tempo diffuse. Le statistiche si commentano da sole. Gli incontri con Papa Francesco sono arrivati nel 2013 (calcolando che il dato non si riferisce a un anno pieno) ad attirare oltre il triplo dei partecipanti agli incontri con Benedetto XVI. C’è stato un lieve calo nel 2014 rispetto al 2013, ma siamo comunque ben oltre il doppio della media di Papa Ratzinger. E c’è stato un calo notevole nel 2015, in una parte significativa determinato dal vero e proprio crollo del mese di dicembre, nonostante il Giubileo. Dal momento che nel 2015, e in particolare nel dicembre 2015, Papa Francesco non ha modificato il suo stile e la sua predicazione rispetto al periodo precedente, mi sembrerebbe più ragionevole attribuire il dato ai proclami dell’ISIS su imminenti attacchi a Roma, ai fatti di Parigi e al diffuso timore di attentati. Le interpretazioni vanno comunque tenute separate dai dati. I dati ci dicono che Papa Francesco attira più fedeli a Roma di Papa Benedetto XVI. So benissimo che questo non ci dice nulla sulla qualità del suo Magistero. In questo testo parlo però solo ed esclusivamente di numeri e di sociologia.

Vengo al problema più serio, che occupa i sociologi della religione italiani – e non solo – in dibattiti spesso aspri da oltre vent’anni. Avendo partecipato in prima persona a questi dibattiti, mi fa un po’ sorridere l’enfasi giornalistica sui dati ISTAT. Se fosse vero che in Italia il 33% della popolazione andava a Messa regolarmente sotto Benedetto XVI e «solo» il 28,8% sotto Francesco, l’Italia sarebbe un esempio clamoroso di successo della nuova evangelizzazione, e i nostri vescovi dovrebbero essere lodati per avere messo in atto campagne missionarie di straordinaria efficacia ignote in altri Paesi. Con l’eccezione della piccola Malta e della Polonia, i dati noti ai sociologi sono inferiori al 28,8% in tutti i Paesi europei. L’Italia avrebbe quattro volte i praticanti cattolici della Francia e quasi il triplo della Svizzera e della Germania.

Purtroppo, questi dati sull’Italia non sono reali. Se si fa una media delle conclusioni delle ricerche compiute dai sociologi italiani che si sono occupati di questo problema nel XXI secolo, la valutazione si attesta intorno, o un po’ sotto, al 20%. Il centro studi che io dirigo, il CESNUR, stima il 18,5%. Da che cosa deriva la discrepanza con l’ISTAT? Non è che l’ISTAT abbia «sbagliato». È che stiamo contando cose diverse. Anzitutto, chi traduce il dato ISTAT in pratica cattolica non si avvede che i questionari dell’ISTAT sono formulati in modo religiosamente neutro. Chiedono se si frequentano «luoghi di culto» e non luoghi di culto cattolici. Molti li interpretano come se l’Italia fosse ancora un Paese a monocultura religiosa cattolica. Non è così. Il 2,9% dei cittadini italiani – secondo i dati aggiornati presentati su www.cesnur.com, il nuovo sito del CESNUR dedicato esclusivamente al pluralismo religioso in Italia e che affianca il sito istituzionale www.cesnur.org – appartiene a una minoranza religiosa. Attenzione: stiamo parlando di cittadini italiani, non di immigrati (se si contano i presenti sul territorio nazionale, immigrati compresi, la percentuale di fedeli di minoranze religiose sale al 9,1%). Il 2,9% può sembrare modesto, ma occorre considerare che si tratta in maggioranza di convertiti di prima generazione, per definizione praticanti. Se uno lascia il cattolicesimo o l’ateismo per convertirsi al pentecostalismo attirato dalle sue funzioni «calde», di solito va poi regolarmente a queste celebrazioni. I pentecostali italiani sono 319.000, e la percentuale di non praticanti è molto bassa. Per tacere dei 75.000 membri del gruppo buddhista della Soka Gakkai, una realtà religiosa definita appunto dalla «pratica» ben più che da una dottrina.

Soprattutto, l’ISTAT – come tanti altri istituti le cui statistiche finiscono spesso sui giornali – non conta chi va effettivamente in un luogo di culto, ma chi dice di andarci all’intervistatore. Si tratta di due dati molto diversi. Anche i non sociologi sanno quanto diverso sia contare chi dice che voterà un determinato partito nei sondaggi e chi lo vota effettivamente nelle urne. Ormai in tutti i Paesi per le cerimonie religiose si studia l’over-reporting, cioè la discrepanza fra chi risponde agli intervistatori dichiarando di essere andato in chiesa la settimana precedente e chi ci è andato per davvero. Come si fa? È semplice, ma è costoso. Occorre in una zona determinata rilevare con pazienza tutti i luoghi di culto, anche semi-privati e minimi, e in un week-end dato (iniziando il venerdì, perché ci sono anche le moschee) dispiegare rilevatori muniti di semplici macchine calcolatrici e registrare le entrate effettive. Dopo di che si procede con la consueta indagine telefonica a campione del tipo di quella realizzata dall’ISTAT, chiedendo agli intervistati se hanno partecipato a una funzione religiosa nella settimana precedente.

Conosco un solo Paese al mondo dove, con impiego di risorse massicce da parte dei vescovi cattolici, esiste una «domenica delle statistiche» in cui, da molti anni, avviene una rilevazione di questo genere in tutti i luoghi dove si celebra una Messa cattolica, seguita da un’indagine telefonica a campione. Si tratta della Polonia. I dati non sono esattamente pubblicizzati, ma sono accessibili agli studiosi. Il margine medio di over-reporting è del 12%, con punte più alte, fino al 16%. Questo significa che se, per esempio, in una regione polacca il 40% dichiara di essere andato a Messa nel week-end precedente, il conto alle porte delle chiese rivela che il dato reale è fra il 24% e il 28%.

In Italia non si sono mai trovate le risorse per indagini nazionali del tipo di quella polacca, ma esistono due serie statistiche costruite da Alessandro Castegnaro in Veneto e dal sottoscritto e PierLuigi Zoccatelli in Sicilia. Si può discutere sulla rappresentatività di dati regionali, ma rimane il dato curioso che in Veneto e in Sicilia il dato di partecipazione reale alla Messa rilevato con il conteggio alle porte delle chiese è quasi identico: 18,5% in Sicilia e 18,3% in Veneto. Dati che corrispondono alla stima dei praticanti regolari in diverse importanti ricerche sociologiche nazionali. Praticanti cattolici: la Sicilia è una delle regioni italiane con il maggior numero di pentecostali e i praticanti di altre religioni che abbiamo rilevato sono un altro 3,5% della popolazione totale. Nella stessa indagine siciliana – descritta nel volume di cui sono autore con Zoccatelli La Messa è finita? (Sciascia, Caltanissetta-Roma 2010) – nell’indagine telefonica si dichiarava praticante regolare il 33,6% della popolazione, cioè al netto dei non cattolici il 30,1%. Il dato dell’over-reporting corrisponde a quello medio polacco.

Chiudo con tre commenti finali. Primo: coloro che riferiscono all’ISTAT o ad altri di essere andati a Messa ma in realtà non ci sono andati non sono semplici bugiardi. Considerarli mentitori o burloni che si divertono a ingannare gli intervistatori sarebbe un altro modo di usare in modo sbagliato la sociologia. Tutti gli studi sull’over-reporting considerano il numero di chi dichiara di aver frequentato una funzione religiosa, anche se non lo ha fatto, tutt’altro che irrilevante. Le risposte esprimono infatti un’identità e un’identificazione con la pratica religiosa che è sociologicamente interessante, anche se non corrisponde a una pratica reale.

Secondo: le serie statistiche sulla partecipazione alla Messa mostrano che ha senso trarne conclusioni solo sul lungo periodo, ripetendo più volte le stesse indagini, anche in luoghi diversi. Il calo dei partecipanti alla Messa nell’Europa Occidentale – discorsi diversi valgono per altri continenti, Stati Uniti compresi – è iniziato negli anni 1960 e, pur non procedendo in modo lineare, è sempre continuato. Non possiamo neppure attribuirlo a fenomeni interni alla Chiesa Cattolica perché nelle denominazioni protestanti storiche il calo è stato ancora più marcato. In Italia abbiamo avuto un contenimento nel danno nei primi anni del pontificato di Giovanni Paolo II: ma è un dato che possiamo accertare e studiare seriamente solo ora, a distanza di qualche decennio. Dire adesso che il numero dei fedeli che vanno a Messa è aumentato o diminuito nel pontificato di Papa Francesco non ha molto senso.

Terzo: ho coniato io la formula «effetto Francesco» in una ricerca del 2013. Sono contento che sia stata ripresa in centinaia di altre ricerche e migliaia di articoli: ne ho trovati anche in Cina e in India. Vorrei però precisare che l’«effetto Francesco» delle mie due ricerche (2013 e 2014) non si riferiva affatto alla pratica religiosa festiva. Avendo partecipato ai dibattiti sul punto, e diretta una delle più note ricerche italiane sul tema, so benissimo che la pratica religiosa va misurata nel lungo periodo ed è influenzata da una serie complessa di variabili. Le mie ricerche per cui ho coniato l’espressione «effetto Francesco» miravano a confermare o smentire quanto Andrea Tornielli ed altri giornalisti avevano riferito in modo aneddotico: il fatto che un certo numero di parroci e rettori di santuari descrivevano persone da anni lontane dalla Chiesa che mostravano un nuovo interesse per il cattolicesimo, citando specificamente la persona del nuovo Papa come ragione di questo riavvicinamento. Attenzione: nuovo interesse per la Chiesa non significa decisione di partecipare regolarmente alla Messa domenicale. La partecipazione alla Messa si misura, come ho cercato di spiegare, con tutt’altra metodologia.

Su un campione di parroci italiani, il 50% ha confermato l’esistenza dell’«effetto Francesco» nella propria comunità, mentre il 50% non lo ha constatato. L’indagine è stata ripetuta da colleghi britannici – con un «effetto Francesco» lievemente superiore a quello italiano – e statunitensi, con un «effetto Francesco» inferiore. Conclusione: l’«effetto Francesco» non è unanimemente diffuso, ma non è neppure un’invenzione giornalistica.

Ancora una volta, tutto questo non ci dice nulla sulla qualità del Magistero di Papa Francesco. Ma non tirate per la giacchetta i sociologi.

Un cordiale saluto.

Massimo Introvigne

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