IL MADE IN ITALY CHE CI SFUGGE DI MANO
Poche settimane fa, due colpi di mercato hanno lasciato un altro segno: due importanti marchi i storici del made in Italy come Loro Piana e Pernigotti hanno definitivamente lasciato l’Italia per finire sotto il controllo di imprenditori stranieri.
Una cinica riflessione sulla nostra economia fa pensare che gli stranieri ci puntano e per loro è il momento di fare shopping nel nostro Paese per prendersi sotto il controllo “l’argenteria di casa”: quel che resta di buono della nostra industria e dei brand che hanno fatto la storia dell’imprenditoria italiana.
I cacciatori sono diversi. Fra essi si è certamente distinto Bernard Arnault, patron del colosso francese Lvmh, che ha già fatto incetta dei marchi più prestigiosi del nostro lusso. Con un investimento di due miliardi si è aggiudicato l’80% della griffe del cachemire lasciando alla famiglia Piana che ha gestito l’azienda per ben sei generazioni, una quota di partecipazione minoritaria. Per la cronaca il Sig. Arnault ha già acquisito altri grandi marchi nazionali come Bulgari, Fendi e Pucci. L’acquisto di Loro Piana segue di poche settimane l’operazione Cova, storica pasticceria nel cuore della Milano della moda, passata anch’essa in quota di maggioranza nelle mani di Lvmh.
Dopo il cashmere e la pasticceria anche la cioccolata “made in italy” ha cambiato Paese. Lo storico gruppo Pernigotti, produttore dei famosi gianduiotti, è passato sotto il controllo della Toksoz, società turca già leader nella produzione di snack dolci. E così, dopo 150 anni, l’Italia perde un altra punta di diamante dell’artigianato.
Ma questa non è che una tappa di una sequela di acquisizioni che è iniziata già da tempo. Il gruppo francese Lactalis poco meno di dodici mesi fa ha fatto suo il gruppo Parmalat dopo aver acquisito il Gruppo Galbani, il marchio Gianfranco Ferrè è stato ceduto al Paris Group di Dubai, Gucci è da tempo sotto il controllo di Ppr, le pelletterie di Bottega Veneta e le calzature Sergio Rossi sono sotto il controllo di Francois Henri Pinault. Sempre monsier Pinault si è aggiudicato il 100% di Brioni, icona italiana dell’eleganza maschile che veste Obama, Putin e tutti i James Bond del cinema.
La Ducati, storica e blasonata azienda che ha fatto la storia della nostra industria motociclistica è nelle mani tedesche del Gruppo Audi, Anche la telefonia, poi, ha subito lo stesso destino. Fastweb nata 1999 a Milano come una joint venture tra e.Bisom e la comunale Aem per la realizzazione di una rete di fibra ottica in grado di coprire tutto il territorio del capoluogo lombardo prima e quello nazionale dopo, oggi fa parte del gruppo svizzero Swisscom.
Se leggiamo le dichiarazioni che hanno giustificato tutte queste operazioni troviamo molto spesso lo stesso ritornello: “….condividiamo gli stessi valori, sia familiari che aziendali, la ricerca permanente della qualità e siamo convinti che con l’acquisizione di questa grande azienda italiana il nostro gruppo possa apportare un forte contributo al futuro dell’azienda e alla continuità del made in Italy….” , ” …..Siamo fieri di aver acquisito questa storica azienda italiana…..un marchio ricco di storia e fascino che identifica nel mondo la qualità del made in Italy. Manterremo e potenzieremo l’attuale struttura, sviluppando l’attività in nuove e interessanti aree geografiche”.
Generazioni e generazioni d’imprenditoria italiana, cultura, di storia del nostro Bel Paese, spariti, cancellati, assorbiti nelle mani di imprese straniere più forti, dotate certamente di mezzi finanziari più cospicui ma con anche una voglia del fare maggiore e di una visione a lungo termine più lucida di quella oggi appannata, stanca, spesso indecifrabile della nostra imprenditoria domestica.
Il demerito non è solo degli imprenditori. La nostra politica non è riuscita in questi anni a tutelare i nostri marchi italiani. Non siamo stati bravi, come invece hanno fatto altri governi, a difendere i propri “gioielli di famiglia”. Il declino del made in Italy è stato ed è tuttora inarrestabile: si è iniziato con importare materie prime dall’estero per produrre prodotti “made in Italy”, poi è iniziata la fase dell’assalto dei brand italiani storici, l’epilogo è la graduale chiusura degli stabilimenti italiani per trasferirli all’estero. Non credo che possa bastare la scusa della crisi. C’è di più. C’è una latitanza generale da parte della politica, delle istituzioni, cui manca già da tempo la visione del “paese” e del “sistema impresa” a breve, medio e lungo termine.
Passando in rassegna i mercati, settori industriali e le imprese parrebbe che l’unica a tenere sia ancora e sempre la Fiat che l’anno scorso ha acquistato il 35 per cento dell’americana Chrysler. C’è però una questione in sospeso: è possibile l’ipotesi di che l’azienda del lingotto trasferisca la sede legale del gruppo Fiat in Olanda. Perchè ? E questa però sarà un’altra storia ancora da scoprire.
Fabio Fanecco