Il ricorso contro il Papa all’Aja, un’anomalia giuridica

Il ricorso contro il Papa all’Aja, un’anomalia giuridica

di Rafael Navarro-Valls*

MADRID, mercoledì, 21 settembre 2011 (ZENIT.org).- La storia del diritto, nel corso del suo lungo divenire, ha raccolto alcune curiosità giuridiche. Mi riferisco a situazioni anomale che sono solitamente rubricate tra quei casi che rendono, talvolta, il diritto una “missione impossibile”; ciò che è stato acutamente chiamato “iustopia”. Molte sono di natura processuale, probabilmente perché i sentieri del giurista sono così vari che non di rado alcuni approdano a strade senza uscita.

Temo che tra questi rientri anche il percorso scelto dai consiglieri giuridici di alcune vittime di quel gravissimo delitto che è la pedofilia, con il ricorso presentato dall’organizzazione SNAP (Survivors Network of those Abused by Priests) – la più grande associazione delle vittime degli abusi commessi dai preti – contro il Papa Benedetto XVI e diversi Cardinali della Chiesa cattolica.

L’intenzione di attribuire la responsabilità alla Chiesa cattolica, al Santo Padre, o a membri della Curia di Roma, di fatti compiuti in diverse parti del mondo, da persone con la capacità sufficiente ad essere soggetti di responsabilità penale, e dove esistono organi giudiziari in grado di giudicarli, è effettivamente un’anomalia giuridica.

Non solo è un qualcosa di ingiusto, ma è anche una missione impossibile. Qualcosa come – chiedo scusa per l’analogia, che sempre comporta qualche inesattezza – se si accusasse il Segretario generale dell’ONU di fatti delittuosi compiuti in uno dei 192 Paesi che fanno parte delle Nazioni Unite. I colpevoli sono i delinquenti, non le autorità che lottano per sradicare quei delitti.

Il caso di Benedetto XVI è particolarmente esemplare: è stato il Pontefice che con maggior vigore ha portato avanti la prevenzione e la repressione dei pedofili chierici o religiosi. Certamente un numero contenuto se lo si raffronta alla stragrande maggioranza del clero o dei religiosi che conducono una vita ordinata e irreprensibile.

Poiché qualche mezzo di comunicazione ha avuto la sensibilità di sollecitare a questo Osservatorio giuridico un’analisi del ricorso presentato alla Corte penale internazionale dell’Aja (CPI) – da non confondere con la Corte internazionale di giustizia dell’ONU – mi sia concesso di riassumere il mio pensiero. Il lettore mi perdonerà se, inevitabilmente, dovrò ricorrere a un certo gergo giuridico.

Competenza soggettiva e materiale della Corte penale internazionale. Il caso della Santa Sede.

Perché un organismo internazionale possa agire è richiesto anzitutto che ne abbia competenza e che l’oggetto in questione sia ammissibile. La CPI ha competenza su persone fisiche, maggiorenni, cittadini di Stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma del 1998, che ha dato vita alla Corte. Che io sappia, né la Santa Sede, né il Vaticano, figurano tra quegli Stati che l’hanno fatto. In questo senso, la Corte non ha competenza né sul Santo Padre, né sulle circa 450 persone che godono della cittadinanza vaticana, tra cui i Cardinali Bertone, Levada e Sodano, citati nel ricorso. Lo stesso dicasi, per esempio, per gli Stati Uniti o la Cina che, non avendo ratificato lo Statuto di Roma, sono esclusi dal raggio d’azione della Corte.

Solo nel caso in cui il Consiglio di sicurezza dell’ONU ritenesse sussistere un pericolo per la pace e la sicurezza internazionale – cosa che ovviamente non sussiste nel caso in questione – la Corte penale internazionale potrebbe essere chiamata a indagare e giudicare i fatti avvenuti in uno Stato che non abbia aderito allo Statuto di Roma. Questo è avvenuto, per esempio, per il genocidio del Darfur (Sudan). Il Paese non aveva aderito allo Statuto, eppure il 31 marzo 2005 il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha adottato la Risoluzione 1593 con cui ha rimesso la questione alla Corte penale.

Riguardo alla materia che è oggetto del ricorso (pedofilia esercitata in diverse zone geografiche), sarebbe una forzatura farla rientrare nell’ambito dei crimini contro l’umanità di cui all’articolo 7 dello Statuto della Corte. Non perché manchi la gravità, ma perché quell’articolo intende per crimini contro l’umanità quegli atti commessi “nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili e con la consapevolezza dell’attacco”. Tra questi atti vi possono rientrare alcuni delitti sessuali come la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata e “altre forme di analoga gravità”. L’esempio classico è quello delle gravidanze forzate, perpetrate in massa nei confronti di una determinata etnia, nell’ambito di conflitti armati. Infatti la CPI ha esercitato la sua azione su questo tipo di crimini commessi in Congo, Uganda e nella Repubblica centrale africana.

Tuttavia, qui si tratta di delitti che sarebbero stati commessi da chierici di diverse nazionalità, in diversi Paesi. Manca ciò che Cuno Tarfusser, giudice della CPI, ha di recente definito come “elemento contestuale”, ovvero che quegli atti siano stati commessi nell’ambito di un attacco alla popolazione civile, di carattere sistematico e organizzato, in conformità con la politica di uno Stato.

Dal 2002, anno in cui ha iniziato a funzionare la CPI, sono state presentate circa 8000 denuncie di ogni tipo. Non mi risulta che esista un processo che sia stato aperto per pedofilia con questo contesto.

Complementarietà della CPI rispetto ai tribunali nazionali

In via principale è il diritto penale di ciascuno dei Paesi interessati ad avere la competenza personale e territoriale. La Corte penale internazionale ha solamente un carattere “complementare” rispetto alle giurisdizioni nazionali (articolo 1 Statuto CPI). Per questo, lo Statuto dispone che non sarà ammessa una questione penale se “sullo stesso sono in corso di svolgimento indagini o provvedimenti penali condotti da uno Stato che ha su di esso giurisdizione, a meno che tale Stato non intenda iniziare le indagini ovvero non abbia la capacità di svolgerle correttamente e di intentare un procedimento” (art.17).

È interessante la posizione adottata dalla giurisprudenza nordamericana sulle relazioni tra le diocesi e la Santa Sede in materia di pedofili. Nel 2009, la Corte d’appello per il nono circuito ha deciso, in un’importante sentenza, che non è corretto parlare di “comunicazione o connessione di responsabilità tra le diocesi e/o i membri del clero interessati e la Santa Sede” (Sentenza John Doe c. Santa Sede, 3 marzo 2009, Corte d’appello per il Nono circuito, ricorso alla Corte suprema negato).

Né avrebbe competenza l’altro tribunale dell’Aia, che è la Corte internazionale di giustizia dell’ONU, non solo perché la Santa Sede non è membro dell’ONU (è solo osservatore permanente), ma anche perché la Corte consente solo agli Stati di poter essere parte in causa e non anche a gruppi di persone (art. 34, comma 1, Statuto della Corte internazionale di giustizia dell’ONU).

Come già ho avuto modo di spiegare in altre occasioni, ho l’impressione che alcune delle vittime di questi gravi delitti siano oggetto di manipolazione da parte di avversari della Chiesa cattolica. Non si tratta di svalutare il loro dolore e la gravità del delitto. Si tratta di fare in modo che quella naturale indignazione trovi il suo corso più adatto – anche giuridico – nelle giurisdizioni competenti. Ogni manipolazione finisce alla fine per essere smascherata, soprattutto se è accompagnata da un ampio spiegamento mediatico.

Il diritto è uno strumento molto sensibile di fronte a intenti di questo tipo. Reagisce in modo contundente, rigettando ciò che non è giusto o ciò che è ingigantito nelle sue pretese di competenza. Dobbiamo avere fiducia nella giustizia penale delle nazioni in cui questi dolorosi fatti sono stati commessi. Sono sicuro che riceveranno la pena con la dovuta severità.

Per il resto, sorprende che il ricorso sia stato presentato immediatamente dopo quel positivo e massiccio consenso espresso per la figura di Benedetto XVI da due milioni di giovani nella GMG di Madrid e immediatamente prima di un complesso viaggio del Papa in Germania.

In conclusione, prevedo, per quell’infondato ricorso, un rigetto senza palliativi da parte della Corte penale internazionale. Il tema, a mio avviso, sarà in futuro considerato come una di quelle rarità giuridiche che ogni tanto si verificano nella storia del diritto.

——-

*Rafael Navarro-Valls è docente della Facoltà di diritto dell’Università Complutense di Madrid e segretario generale della Real Academia de Jurisprudencia y Legislación spagnola.

di Rafael Navarro-Valls*

MADRID, mercoledì, 21 settembre 2011 (ZENIT.org).- La storia del diritto, nel corso del suo lungo divenire, ha raccolto alcune curiosità giuridiche. Mi riferisco a situazioni anomale che sono solitamente rubricate tra quei casi che rendono, talvolta, il diritto una “missione impossibile”; ciò che è stato acutamente chiamato “iustopia”. Molte sono di natura processuale, probabilmente perché i sentieri del giurista sono così vari che non di rado alcuni approdano a strade senza uscita.

Temo che tra questi rientri anche il percorso scelto dai consiglieri giuridici di alcune vittime di quel gravissimo delitto che è la pedofilia, con il ricorso presentato dall’organizzazione SNAP (Survivors Network of those Abused by Priests) – la più grande associazione delle vittime degli abusi commessi dai preti – contro il Papa Benedetto XVI e diversi Cardinali della Chiesa cattolica.

L’intenzione di attribuire la responsabilità alla Chiesa cattolica, al Santo Padre, o a membri della Curia di Roma, di fatti compiuti in diverse parti del mondo, da persone con la capacità sufficiente ad essere soggetti di responsabilità penale, e dove esistono organi giudiziari in grado di giudicarli, è effettivamente un’anomalia giuridica.

Non solo è un qualcosa di ingiusto, ma è anche una missione impossibile. Qualcosa come – chiedo scusa per l’analogia, che sempre comporta qualche inesattezza – se si accusasse il Segretario generale dell’ONU di fatti delittuosi compiuti in uno dei 192 Paesi che fanno parte delle Nazioni Unite. I colpevoli sono i delinquenti, non le autorità che lottano per sradicare quei delitti.

Il caso di Benedetto XVI è particolarmente esemplare: è stato il Pontefice che con maggior vigore ha portato avanti la prevenzione e la repressione dei pedofili chierici o religiosi. Certamente un numero contenuto se lo si raffronta alla stragrande maggioranza del clero o dei religiosi che conducono una vita ordinata e irreprensibile.

Poiché qualche mezzo di comunicazione ha avuto la sensibilità di sollecitare a questo Osservatorio giuridico un’analisi del ricorso presentato alla Corte penale internazionale dell’Aja (CPI) – da non confondere con la Corte internazionale di giustizia dell’ONU – mi sia concesso di riassumere il mio pensiero. Il lettore mi perdonerà se, inevitabilmente, dovrò ricorrere a un certo gergo giuridico.

Competenza soggettiva e materiale della Corte penale internazionale. Il caso della Santa Sede.

Perché un organismo internazionale possa agire è richiesto anzitutto che ne abbia competenza e che l’oggetto in questione sia ammissibile. La CPI ha competenza su persone fisiche, maggiorenni, cittadini di Stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma del 1998, che ha dato vita alla Corte. Che io sappia, né la Santa Sede, né il Vaticano, figurano tra quegli Stati che l’hanno fatto. In questo senso, la Corte non ha competenza né sul Santo Padre, né sulle circa 450 persone che godono della cittadinanza vaticana, tra cui i Cardinali Bertone, Levada e Sodano, citati nel ricorso. Lo stesso dicasi, per esempio, per gli Stati Uniti o la Cina che, non avendo ratificato lo Statuto di Roma, sono esclusi dal raggio d’azione della Corte.

Solo nel caso in cui il Consiglio di sicurezza dell’ONU ritenesse sussistere un pericolo per la pace e la sicurezza internazionale – cosa che ovviamente non sussiste nel caso in questione – la Corte penale internazionale potrebbe essere chiamata a indagare e giudicare i fatti avvenuti in uno Stato che non abbia aderito allo Statuto di Roma. Questo è avvenuto, per esempio, per il genocidio del Darfur (Sudan). Il Paese non aveva aderito allo Statuto, eppure il 31 marzo 2005 il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha adottato la Risoluzione 1593 con cui ha rimesso la questione alla Corte penale.

Riguardo alla materia che è oggetto del ricorso (pedofilia esercitata in diverse zone geografiche), sarebbe una forzatura farla rientrare nell’ambito dei crimini contro l’umanità di cui all’articolo 7 dello Statuto della Corte. Non perché manchi la gravità, ma perché quell’articolo intende per crimini contro l’umanità quegli atti commessi “nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili e con la consapevolezza dell’attacco”. Tra questi atti vi possono rientrare alcuni delitti sessuali come la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata e “altre forme di analoga gravità”. L’esempio classico è quello delle gravidanze forzate, perpetrate in massa nei confronti di una determinata etnia, nell’ambito di conflitti armati. Infatti la CPI ha esercitato la sua azione su questo tipo di crimini commessi in Congo, Uganda e nella Repubblica centrale africana.

Tuttavia, qui si tratta di delitti che sarebbero stati commessi da chierici di diverse nazionalità, in diversi Paesi. Manca ciò che Cuno Tarfusser, giudice della CPI, ha di recente definito come “elemento contestuale”, ovvero che quegli atti siano stati commessi nell’ambito di un attacco alla popolazione civile, di carattere sistematico e organizzato, in conformità con la politica di uno Stato.

Dal 2002, anno in cui ha iniziato a funzionare la CPI, sono state presentate circa 8000 denuncie di ogni tipo. Non mi risulta che esista un processo che sia stato aperto per pedofilia con questo contesto.

Complementarietà della CPI rispetto ai tribunali nazionali

In via principale è il diritto penale di ciascuno dei Paesi interessati ad avere la competenza personale e territoriale. La Corte penale internazionale ha solamente un carattere “complementare” rispetto alle giurisdizioni nazionali (articolo 1 Statuto CPI). Per questo, lo Statuto dispone che non sarà ammessa una questione penale se “sullo stesso sono in corso di svolgimento indagini o provvedimenti penali condotti da uno Stato che ha su di esso giurisdizione, a meno che tale Stato non intenda iniziare le indagini ovvero non abbia la capacità di svolgerle correttamente e di intentare un procedimento” (art.17).

È interessante la posizione adottata dalla giurisprudenza nordamericana sulle relazioni tra le diocesi e la Santa Sede in materia di pedofili. Nel 2009, la Corte d’appello per il nono circuito ha deciso, in un’importante sentenza, che non è corretto parlare di “comunicazione o connessione di responsabilità tra le diocesi e/o i membri del clero interessati e la Santa Sede” (Sentenza John Doe c. Santa Sede, 3 marzo 2009, Corte d’appello per il Nono circuito, ricorso alla Corte suprema negato).

Né avrebbe competenza l’altro tribunale dell’Aia, che è la Corte internazionale di giustizia dell’ONU, non solo perché la Santa Sede non è membro dell’ONU (è solo osservatore permanente), ma anche perché la Corte consente solo agli Stati di poter essere parte in causa e non anche a gruppi di persone (art. 34, comma 1, Statuto della Corte internazionale di giustizia dell’ONU).

Come già ho avuto modo di spiegare in altre occasioni, ho l’impressione che alcune delle vittime di questi gravi delitti siano oggetto di manipolazione da parte di avversari della Chiesa cattolica. Non si tratta di svalutare il loro dolore e la gravità del delitto. Si tratta di fare in modo che quella naturale indignazione trovi il suo corso più adatto – anche giuridico – nelle giurisdizioni competenti. Ogni manipolazione finisce alla fine per essere smascherata, soprattutto se è accompagnata da un ampio spiegamento mediatico.

Il diritto è uno strumento molto sensibile di fronte a intenti di questo tipo. Reagisce in modo contundente, rigettando ciò che non è giusto o ciò che è ingigantito nelle sue pretese di competenza. Dobbiamo avere fiducia nella giustizia penale delle nazioni in cui questi dolorosi fatti sono stati commessi. Sono sicuro che riceveranno la pena con la dovuta severità.

Per il resto, sorprende che il ricorso sia stato presentato immediatamente dopo quel positivo e massiccio consenso espresso per la figura di Benedetto XVI da due milioni di giovani nella GMG di Madrid e immediatamente prima di un complesso viaggio del Papa in Germania.

In conclusione, prevedo, per quell’infondato ricorso, un rigetto senza palliativi da parte della Corte penale internazionale. Il tema, a mio avviso, sarà in futuro considerato come una di quelle rarità giuridiche che ogni tanto si verificano nella storia del diritto.

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*Rafael Navarro-Valls è docente della Facoltà di diritto dell’Università Complutense di Madrid e segretario generale della Real Academia de Jurisprudencia y Legislación spagnola.

di Rafael Navarro-Valls*

MADRID, mercoledì, 21 settembre 2011 (ZENIT.org).- La storia del diritto, nel corso del suo lungo divenire, ha raccolto alcune curiosità giuridiche. Mi riferisco a situazioni anomale che sono solitamente rubricate tra quei casi che rendono, talvolta, il diritto una “missione impossibile”; ciò che è stato acutamente chiamato “iustopia”. Molte sono di natura processuale, probabilmente perché i sentieri del giurista sono così vari che non di rado alcuni approdano a strade senza uscita.

Temo che tra questi rientri anche il percorso scelto dai consiglieri giuridici di alcune vittime di quel gravissimo delitto che è la pedofilia, con il ricorso presentato dall’organizzazione SNAP (Survivors Network of those Abused by Priests) – la più grande associazione delle vittime degli abusi commessi dai preti – contro il Papa Benedetto XVI e diversi Cardinali della Chiesa cattolica.

L’intenzione di attribuire la responsabilità alla Chiesa cattolica, al Santo Padre, o a membri della Curia di Roma, di fatti compiuti in diverse parti del mondo, da persone con la capacità sufficiente ad essere soggetti di responsabilità penale, e dove esistono organi giudiziari in grado di giudicarli, è effettivamente un’anomalia giuridica.

Non solo è un qualcosa di ingiusto, ma è anche una missione impossibile. Qualcosa come – chiedo scusa per l’analogia, che sempre comporta qualche inesattezza – se si accusasse il Segretario generale dell’ONU di fatti delittuosi compiuti in uno dei 192 Paesi che fanno parte delle Nazioni Unite. I colpevoli sono i delinquenti, non le autorità che lottano per sradicare quei delitti.

Il caso di Benedetto XVI è particolarmente esemplare: è stato il Pontefice che con maggior vigore ha portato avanti la prevenzione e la repressione dei pedofili chierici o religiosi. Certamente un numero contenuto se lo si raffronta alla stragrande maggioranza del clero o dei religiosi che conducono una vita ordinata e irreprensibile.

Poiché qualche mezzo di comunicazione ha avuto la sensibilità di sollecitare a questo Osservatorio giuridico un’analisi del ricorso presentato alla Corte penale internazionale dell’Aja (CPI) – da non confondere con la Corte internazionale di giustizia dell’ONU – mi sia concesso di riassumere il mio pensiero. Il lettore mi perdonerà se, inevitabilmente, dovrò ricorrere a un certo gergo giuridico.

Competenza soggettiva e materiale della Corte penale internazionale. Il caso della Santa Sede.

Perché un organismo internazionale possa agire è richiesto anzitutto che ne abbia competenza e che l’oggetto in questione sia ammissibile. La CPI ha competenza su persone fisiche, maggiorenni, cittadini di Stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma del 1998, che ha dato vita alla Corte. Che io sappia, né la Santa Sede, né il Vaticano, figurano tra quegli Stati che l’hanno fatto. In questo senso, la Corte non ha competenza né sul Santo Padre, né sulle circa 450 persone che godono della cittadinanza vaticana, tra cui i Cardinali Bertone, Levada e Sodano, citati nel ricorso. Lo stesso dicasi, per esempio, per gli Stati Uniti o la Cina che, non avendo ratificato lo Statuto di Roma, sono esclusi dal raggio d’azione della Corte.

Solo nel caso in cui il Consiglio di sicurezza dell’ONU ritenesse sussistere un pericolo per la pace e la sicurezza internazionale – cosa che ovviamente non sussiste nel caso in questione – la Corte penale internazionale potrebbe essere chiamata a indagare e giudicare i fatti avvenuti in uno Stato che non abbia aderito allo Statuto di Roma. Questo è avvenuto, per esempio, per il genocidio del Darfur (Sudan). Il Paese non aveva aderito allo Statuto, eppure il 31 marzo 2005 il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha adottato la Risoluzione 1593 con cui ha rimesso la questione alla Corte penale.

Riguardo alla materia che è oggetto del ricorso (pedofilia esercitata in diverse zone geografiche), sarebbe una forzatura farla rientrare nell’ambito dei crimini contro l’umanità di cui all’articolo 7 dello Statuto della Corte. Non perché manchi la gravità, ma perché quell’articolo intende per crimini contro l’umanità quegli atti commessi “nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili e con la consapevolezza dell’attacco”. Tra questi atti vi possono rientrare alcuni delitti sessuali come la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata e “altre forme di analoga gravità”. L’esempio classico è quello delle gravidanze forzate, perpetrate in massa nei confronti di una determinata etnia, nell’ambito di conflitti armati. Infatti la CPI ha esercitato la sua azione su questo tipo di crimini commessi in Congo, Uganda e nella Repubblica centrale africana.

Tuttavia, qui si tratta di delitti che sarebbero stati commessi da chierici di diverse nazionalità, in diversi Paesi. Manca ciò che Cuno Tarfusser, giudice della CPI, ha di recente definito come “elemento contestuale”, ovvero che quegli atti siano stati commessi nell’ambito di un attacco alla popolazione civile, di carattere sistematico e organizzato, in conformità con la politica di uno Stato.

Dal 2002, anno in cui ha iniziato a funzionare la CPI, sono state presentate circa 8000 denuncie di ogni tipo. Non mi risulta che esista un processo che sia stato aperto per pedofilia con questo contesto.

Complementarietà della CPI rispetto ai tribunali nazionali

In via principale è il diritto penale di ciascuno dei Paesi interessati ad avere la competenza personale e territoriale. La Corte penale internazionale ha solamente un carattere “complementare” rispetto alle giurisdizioni nazionali (articolo 1 Statuto CPI). Per questo, lo Statuto dispone che non sarà ammessa una questione penale se “sullo stesso sono in corso di svolgimento indagini o provvedimenti penali condotti da uno Stato che ha su di esso giurisdizione, a meno che tale Stato non intenda iniziare le indagini ovvero non abbia la capacità di svolgerle correttamente e di intentare un procedimento” (art.17).

È interessante la posizione adottata dalla giurisprudenza nordamericana sulle relazioni tra le diocesi e la Santa Sede in materia di pedofili. Nel 2009, la Corte d’appello per il nono circuito ha deciso, in un’importante sentenza, che non è corretto parlare di “comunicazione o connessione di responsabilità tra le diocesi e/o i membri del clero interessati e la Santa Sede” (Sentenza John Doe c. Santa Sede, 3 marzo 2009, Corte d’appello per il Nono circuito, ricorso alla Corte suprema negato).

Né avrebbe competenza l’altro tribunale dell’Aia, che è la Corte internazionale di giustizia dell’ONU, non solo perché la Santa Sede non è membro dell’ONU (è solo osservatore permanente), ma anche perché la Corte consente solo agli Stati di poter essere parte in causa e non anche a gruppi di persone (art. 34, comma 1, Statuto della Corte internazionale di giustizia dell’ONU).

Come già ho avuto modo di spiegare in altre occasioni, ho l’impressione che alcune delle vittime di questi gravi delitti siano oggetto di manipolazione da parte di avversari della Chiesa cattolica. Non si tratta di svalutare il loro dolore e la gravità del delitto. Si tratta di fare in modo che quella naturale indignazione trovi il suo corso più adatto – anche giuridico – nelle giurisdizioni competenti. Ogni manipolazione finisce alla fine per essere smascherata, soprattutto se è accompagnata da un ampio spiegamento mediatico.

Il diritto è uno strumento molto sensibile di fronte a intenti di questo tipo. Reagisce in modo contundente, rigettando ciò che non è giusto o ciò che è ingigantito nelle sue pretese di competenza. Dobbiamo avere fiducia nella giustizia penale delle nazioni in cui questi dolorosi fatti sono stati commessi. Sono sicuro che riceveranno la pena con la dovuta severità.

Per il resto, sorprende che il ricorso sia stato presentato immediatamente dopo quel positivo e massiccio consenso espresso per la figura di Benedetto XVI da due milioni di giovani nella GMG di Madrid e immediatamente prima di un complesso viaggio del Papa in Germania.

In conclusione, prevedo, per quell’infondato ricorso, un rigetto senza palliativi da parte della Corte penale internazionale. Il tema, a mio avviso, sarà in futuro considerato come una di quelle rarità giuridiche che ogni tanto si verificano nella storia del diritto.

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*Rafael Navarro-Valls è docente della Facoltà di diritto dell’Università Complutense di Madrid e segretario generale della Real Academia de Jurisprudencia y Legislación spagnola.