Pubblichiamo la sentenza con la quale la Corte di Cassazione conferma l’ordine dato dai giudici di Torino al Comune della stessa città di iscrivere all’anagrafe un bambino quale figlio di due madri. A seguire un primo commento di Alfredo Mantovano, pubblicato da La nuova Bussola Quotidiana, quotidiano on line.
Cassazione: sentenza sulle due madri
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Di nuovo c’è soltanto il deposito, avvenuto venerdì 30, delle motivazioni della sentenza. Ma il contenuto della sentenza del 21 giugno 2016 della 1^ sezione civile della Cassazione era già stato anticipato, e riguardava un caso più che noto: due donne, una italiana e una spagnola, contraggono matrimonio in Spagna, una delle due ha un figlio da fecondazione artificiale di tipo eterologo con gamete di uomo non noto, il bambino viene registrato all’anagrafe come figlio delle due donne. Nel 2013 esse divorziano, l’italiana decide di rientrare a Torino, sua città di origine, e qui chiede all’ufficiale di stato civile del Comune la trascrizione dell’atto spagnolo: ciò che il funzionario rifiuta. Il Tribunale e la Corte di appelloordinano al Comune di Torino di provvedere, il Procuratore generale di Torino, Marcello Maddalena,presenta ricorso per Cassazione.
La Corte di Cassazione intanto decide come sezione semplice, e non – come richiesto dal Procuratore generale – a sezioni unite. Motiva questa scelta poiché non ritiene “la questione di massima di particolare importanza”. E’ la prima di una serie di affermazioni che lasciano non poco perplessi, e viene voglia di riprodurle quasi senza commento, perché parlano da sé.
Dice la Corte che una trascrizione come quella chiesta al Municipio non contrasta con i principi fondamentali dell’ordine pubblico italiano, come ha sostenuto il ministero dell’Interno, intervenuto nel giudizio, perché tali principi devono armonizzarsi con quelli che vigono in queste materie in altre nazioni (magari anche lì esito di pronunce giudiziarie prima che di provvedimenti legislativi). Rileva poco ricordare che la Corte EDU ha più volte sancito che in tema di famiglia ogni Stato, salvi i diritti fondamentali, esercita le proprie scelte, non condizionabili dalle scelte di altri Stati.
Secondo la Corte la regola secondo cui è madre chi partorisce, non avrebbe fondamento in principi di rango costituzionale, e per questo cede di fronte ad altre modalità di realizzazione della maternità: pare più di una affermazione ideologica che un principio di diritto. Simile a quella secondo cui oggi la famiglia è definibile come “comunità di affetti” (sì che l’art. 29 Cost. è messo da parte) e al suo interno vige il principio di autodeterminazione (che in realtà è stato per la prima volta teorizzato dalla Corte costituzionale quando ha legalizzato l’eterologa).
Per la Cassazione l’interesse del minore impone la trascrizione come figlio di due madri per garantire al bambino la continuità dello status di filiazione sancito dallo Stato di provenienza: è un forte incentivo ad aggirare residui ostacoli presenti nella nostra legislazione, ottenendo iscrizioni anagrafiche all’estero, salvo poi trasferirsi in Italia e pretendere “continuità” (dalla quale si perviene all’utero in affitto).
Non vi sarebbe maternità surrogata perché la nascita del bambino sarebbe avvenuta all’interno di una coppia. Confesso di non aver capito questo passaggio, posto che nessuno ha evocato nella specie un caso di maternità surrogata: si tratta piuttosto di una fecondazione eterologa con successiva acquisizione di genitorialità per via di iscrizione anagrafica. Che cosa vuol dire la Cassazione, che non si può parlare di utero in affitto se il bambino è allocato fra due persone che convivono? Ma la maternità surrogata fa riferimento alle modalità di realizzazione della maternità, non a dove va a finire il neonato…
Ma vi è un passaggio della motivazione della sentenza, verso la sua conclusione, che fa riflettere più degli altri (che in fondo non rappresentano novità assolute): quello col quale la Cassazione, facendo riferimento alla legge sulle cosiddette unioni civili, approvata prima della decisione della Corte, sostiene che essa non contiene disposizioni applicabili al caso in esame. Chissà se questo cenno veloce, in una sentenza di oltre 50 pagine, avrà indotto a qualche ripensamento quei parlamentari – soprattutto a quelli di Area Popolare – che avevano vantato come un proprio successo l’esclusione della step child adoption, cioè della possibilità del convivente di diventare genitore adottivo del figlio biologico dell’altro convivente same sex. Il ministro Costa era andato oltre; aveva spiegato che “prima sulla step child adoption c’era un vuoto”, che la giurisprudenza ha provato a colmare. Ma aveva aggiunto che con la “Cirinnà” non era più così: “c’è una norma chiara che la esclude – erano sempre sue parole – a maggior ragione alla luce dei lavori parlamentari. E quindi mi attendo di vedere chiusa una fase di giurisprudenza creativa”. Con tutto il rispetto per il ministro, e alla luce della decisione della Cassazione: a) prima della legge non c’era alcun vuoto normativo, vi è stata invece una esegesi arbitraria di qualche giudice; b) la nuova legge ha consacrato questa giurisprudenza minoritaria, proprio “alla luce dei lavori parlamentari”; c) nella medesima direzione va l’intero sistema introdotto dalla legge Cirinnà.
Il nuovo ordinamento ha equiparato in tutto e per tutto i civiluniti ai coniugi, salve – in apparenza – le norme della legge sull’adozione e poco altro. “In apparenza” perché, dopo aver escluso le disposizioni sulle adozioni, il comma 20 dell’art. 1 conclude con questa espressione: “Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. Perché mai aggiungere questa frase quando l’esclusione non avrebbe lasciato margine di dubbio? Lo aveva spiegato l’on. Micaela Campana, svolgendo la sua relazione nella seduta della Commissione Giustizia della Camera del 3 marzo 2016. Tutti sanno che fra i lavori preparatori la relazione, oltre a costituire l’atto di avvio della discussione in un ramo del Parlamento, è il binario sul quale si articola la discussione stessa, quindi contribuisce all’interpretazione della legge. Il parlamentare relatore è poi assistito dagli uffici della Camera di appartenenza, quindi la sua non è una mera opinione personale. In quella sede la relatrice chiariva che “l’attuale formulazione fa salva la giurisprudenza in merito che consente ai giudici, dopo una valutazione caso per caso, di poter concedere l’adozione anche al genitore sociale per i bambini che sono presenti nelle unioni omosessuali”. Se si legge il seguito dei lavori parlamentari non vi è un solo passaggio in cui questa tesi sia stata smentita un esponente del Governo. Oggi tutto ciò viene confermato dalla Cassazione.
Chi ha votato per la Cirinnà avendo quelle convinzioni è chiamato, alla luce delle motivazioni della sentenza in questione, a riaprire il discorso e a proporre una norma da inserire nella legge, che escluda esplicitamente la filiazione/adozione quando i genitori giuridici sono dello stesso sesso. Attendiamo fiduciosi.
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