Bruxelles, la nuova strategia dell’Isis di Massimo Introvigne
Perché l’ISIS – che, dai primi commenti, sembra il responsabile dell’attentato – ha colpito a Bruxelles? Non basta la sola spiegazione della «vendetta» per l’arresto in Belgio del super-terrorista Salah. Occorre scavare nell’ideologia dei nuovi signori del terrorismo, consultando qualche oscura pubblicazione dell’estremismo ultra-fondamentalista islamico che ci dà però la chiave per capire che cosa sta succedendo.
È anzitutto necessaria una brevissima storia delle divisioni all’interno del terrorismo ultra-fondamentalista islamico. Nella sua incarnazione moderna, questo nasce nel 1981 con l’attentato al presidente egiziano Sadat. L’attentato è un successo sul piano militare – i terroristi riescono a uccidere un leader protetto da un imponente apparato di sicurezza – ma un fallimento sul piano politico. Non ne segue, come gli attentatori avevano sperato, una rivoluzione islamica in Egitto, ma l’arresto e l’impiccagione dei principali leader fondamentalisti, nella sostanziale indifferenza della popolazione. Dopo il 1981 il fondamentalismo propriamente detto sceglie di puntare al potere attraverso la lenta islamizzazione della società, la richiesta di democrazia e le elezioni. Se ne separa l’ultra-fondamentalismo, guidato in Egitto da Ayman al-Zawahiri, l’attuale leader di al-Qa’ida, che vuole invece continuare sulla via del terrorismo e degli attentati.
Ma anche l’ultra-fondamentalismo ha le sue divisioni. La più importante avviene dopo l’11 settembre 2001 e i successivi attentati di Madrid (2004) e Londra (2005). Anche qui si tratta di successi militari, ma con esiti politici ambigui. Ci sono ormai sufficienti documenti per sapere qual era lo scopo cui secondo bin Laden dovevano servire questi attentati. La sua tesi era che i governi laicisti o «falsamente» musulmani del Medio Oriente stanno in piedi solo perché sostenuti dall’Occidente. Se il burattinaio occidentale taglia i fili, i burattini – cioè i governi del Medio Oriente – cadono rapidamente. Gli attentati dovevano servire a convincere gli occidentali che occuparsi del Medio Oriente non era salutare, spaventando l’opinione pubblica e creando una pressione sui governi che li avrebbe indotti a ritirarsi da ogni intervento nei Paesi arabi.
Bin Laden aveva studiato a Londra, dove frequentava gli stadi di calcio – era tifoso dell’Arsenal – ma rifiutava sdegnosamente di andare al cinema. Se avesse visto qualche western, avrebbe capito che il calcolo poteva funzionare – e funzionò – per qualche Paese europeo, ma non per gli Stati Uniti. Quando si sentono attaccati, gli Stati Uniti reagiscono. Dopo l’11 settembre reagiscono in modo confuso, commettendo molti errori, ma certamente disarticolano le basi di al-Qa’ida in Afghanistan e, con il prosieguo della presidenza Bush, iniziano a occuparsi del Medio Oriente non di meno, ma di più. Di qui critiche in al-Qa’ida alle strategie di bin Laden, e la nascita di un’opposizione interna.
Le opposizioni a bin Laden trovano un punto di coagulo nella figura di Abu Musab al-Zarqawi, leader di al-Qa’ida in Iraq. Non solo Zarqawi considera di scarsa utilità gli attentati in Occidente, ma accusa bin Laden di accordi sottobanco con l’Iran sciita e la Siria di Assad, che è un alauita (cioè appartiene a un’eresia sciita), dal suo punto di vista inaccettabili perché non considera gli sciiti autentici musulmani. Quando si imbatte in sciiti, Zarqawi li uccide senza pietà. Il conflitto fra Zarqawi e al-Qa’ida è così forte che, quando il primo è ucciso dagli americani nel 2006, sono in molti a pensare che le informazioni su dove trovarlo siano arrivate ai servizi statunitensi – tramite quelli pakistani – dallo stesso bin Laden.
Di qui un risentimento mai sopito fra i partigiani di Zarqawi e al-Qa’ida, che esplode nel febbraio 2014 quando l’ISIS – che riunisce sostanzialmente chi in Iraq e Siria si considera erede di Zarqawi, più militari nostalgici di Saddam Hussein – si separa da al-Qa’ida. L’attuale ISIS e al-Qa’ida avevano però condiviso un percorso comune dal 2011, l’anno della morte di bin Laden, al 2014, nel corso del quale era emersa l’idea dell’opportunità di non limitarsi al terrorismo ma puntare a costituire veri e propri Stati, certo non riconosciuti dalla comunità internazionale, che battessero moneta, riscuotessero tasse, avessero le loro scuole, polizie e ospedali. Solo che al-Qa’ida pensava a piccoli «emirati» leggeri, diffusi a macchia di leopardo nell’intero mondo islamico, dal Mali alla Somalia e dallo Yemen ai territori tribali fra Afghanistan e Pakistan, mentre l’ISIS ha deciso di puntare a un unico grande califfato.
Sia al-Qa’ida sia l’ISIS organizzano anche attentati in Occidente. Talora collaborano, come nel caso di Charlie Hebdo. L’ISIS non è nato con lo scopo primario di destabilizzare l’Occidente, ma di costruire un califfato in Oriente e in Africa. Per questo ha bisogno di volontari, che costituiscono il nerbo del suo esercito. Dopo l’episodio di Charlie Hebdo, non solo gli analisti ma le stesse pubblicazioni dell’ISIS avevano messo in chiaro a che cosa servono quel genere di attentati. Sono spot pubblicitari per il reclutamento di nuovi militanti che partano dall’Occidente e vadano a combattere in Siria e in Iraq. E sono spot che funzionano: secondo alcune valutazioni, i combattenti partiti dalla Francia per arruolarsi nell’ISIS sono ormai più di mille.
Se questo era vero per Charlie Hebdo, nei mesi passati dall’attacco al giornale satirico francese nel gennaio 2015 ai nuovi attentati di Parigi di novembre 2015 e ora a quello di Bruxelles qualche cosa è cambiato. Lo spot pubblicitario per reclutare giovani estremisti disposti a partire per le terre del califfato rimane il primo motivo degli attentati. Ma se ne aggiunge un secondo, anche qui chiaramente illustrato nella letteratura dell’ISIS, che tra l’altro è scritta da persone di buona cultura. Lo stesso califfo al-Baghdadi non è un contadino, ma un accademico con uno, o secondo altri, due dottorati universitari.
Il secondo obiettivo è creare il caos in alcuni Paesi identificati come «a rischio» per l’incapacità della polizia di controllare periferie e banlieues dove non osa neppure avventurarsi e dove ci sono tanti musulmani. Il caos costringerà la polizia a occuparsi d’altro e a non ostacolare il reclutamento dell’ISIS. E in una società in preda al caos il reclutamento diventerà anche più facile. Lo spiega un opuscolo pubblicato nel mese di luglio 2015 dall’ISIS, «Gang musulmane».
Un autore particolarmente influente sull’ISIS – ma anche sull’ultima generazione di al-Qa’ida – è il siriano, ma cittadino spagnolo, Abu Mussab al-Suri. È un teorico del jihadismo che ha criticato al-Qa’ida per la sua ossessione nei confronti degli Stati Uniti, che ha portato agli attentati dell’11 settembre 2001, spettacolari ma politicamente inutili. Secondo al-Suri occorre invece colpire in Europa. Perché gli europei, a differenza degli americani, si spaventano e si ritraggono quando sono colpiti. E perché le periferie musulmane dell’Europa, soprattutto in Francia e in Belgio, sono a un passo dal diventare piccoli emirati, terre di nessuno dove la polizia a stento osa avventurarsi e dove il reclutamento per il jihad in Medio Oriente può procedere quasi indisturbato. Le teorie di Al-Suri sembravano lontane dalla realtà. Fino agli attentati di Parigi e Bruxelles.