MADAGASCAR, L’AFRICA GENTILE

Fu Marco Polo nel 1290 a parlare per primo del “Mandegascar”, il posto più bello del mondo, pieno di “liofanti”, raccogliendo testimonianze di mercanti arabi, incontrati nei suoi viaggi descritti nel Milione.

In Madagascar non ci sono mai stati “liofanti” (elefanti) , semplicemente è una terra priva di animali predatori e di serpenti velenosi, dove puoi camminare la notte senza incontrare insidie, le cui coste però furono scelte come rifugio dai pirati nel lontano settecento e dalle balene per sempre.

Nella quarta isola più grande del mondo, ogni cosa è complice della sua diversità.

Solo qui vivono i lemuri, dal latino “lemures”, spiriti della notte della mitologia romana, chiamati così da Linneo per gli occhietti ed i versi spettrali di cui aveva udito narrare. Gli animali simbolo del Madagascar, genere a sé : né scimmie né roditori.

E se i lemures latini rappresentavano le anime degli antenati  che proteggevano la casa, tutto nella cultura malgascia si rifà alla devozione per i propri defunti. Nella vita di ogni giorno, tutto è sottoposto al giudizio degli antenati e, se capita qualcosa di negativo,  è  sicuramente dovuto al fatto che ci si è comportati  male.

Il più famoso rito della tradizione locale è il Famadihana, la cerimonia della dissepoltura del parente morto.

Dopo circa sette anni , il defunto, ormai antenato, viene disseppellito, gli viene cambiato il drappo di seta che avvolge i suoi resti ormai mummificati e viene portato in giro per il villaggio. I parenti e gli amici gli mostrano i cambiamenti avvenuti, gli fanno festa con canti e musica, offrono carne di zebù a tutti e poi lo seppelliscono in una tomba definitiva e più nobile. Nei canyon dell’Isalo, regione caratteristica simile all’Arizona, la salma viene posta in piccole grotte sulla montagna, situate più in alto. L’antenato diventa spirito benigno ed in grado di dare buoni consigli.

Questo rito è sopravvissuto al disastroso periodo comunista che ha colpito l’isola per un ventennio, è tollerato dalla Chiesa cattolica, che lo considera un’usanza tradizionale senza connotazioni religiose, ma è mal sopportato dai Protestanti. Oggi è ridimensionato dalla crisi per i costi alti del banchetto, del drappo di seta e delle bande musicali.

Noi, gruppo di turisti italiani, non abbiamo assistito a questa cerimonia, ma ci è capitato di visitare un villaggio sugli altopiani; abbiamo chiesto il permesso ad un terzetto di anziani sul ciglio della strada e siamo entrati in un agglomerato di piccole capanne di fango e paglia. Sul piazzale principale, accanto ad una grossa gabbia, che esibiva un paio di maiali e dove razzolavano galline , oche e tacchini, le donne tagliavano e disponevano ad essiccare tuberi di manioca.

Dovevamo essere i primi bianchi in visita, perché la diffidenza all’inizio e la timidezza poi, li trattenevano dall’avvicinarci. Quando la curiosità ha avuto il sopravvento, ha ceduto il posto alla spontaneità ed ai sorrisi dei bambini e  si è stabilito un rapporto fatto di cenni, di risate, di fotografie in posa. L’atmosfera che abbiamo vissuto è stata di vera empatia pur non avendo utilizzato,quasi del tutto, parole. Solo alla fine, attratte dai capelli biondi di mia figlia, le donne le chiedevano se voleva stabilirsi lì. “Guarda che però ti toccherà mangiare manioca a vita” ironizzava un’anziana in uno stentato francese. Il villaggio era simile ad altri della parte più arida degli altopiani, verso nord, uguale nella descrizione a quelle fatte da Conrad nei suoi racconti di fine ottocento; solo qualche imprevedibile padella di parabolica faceva capolino ogni tanto. C’erano gli alberi da frutta, i ciuffi dei banani, i palmizi, il profumo delle spezie. In questi luoghi la gente non muore di fame, può accadere in città, ma l’alimentazione è comunque povera e ripetitiva. Domina il riso, prodotto in migliaia di risaie a terrazza, retaggio della presenza indonesiana nelle origini della popolazione malgascia.

Le risaie contendono spazio tanto alle verdi colline di conifere del sud, quanto ai margini delle foreste tropicali e pluviali. Tutto viene coltivato con metodi ancestrali, l’aratro trascinato dagli zebù, le mondine chine sull’acqua con ciuffi di piantine nelle mani;  in una cornice di scenari sconfinati, l’aria tersa e leggera,  la bellezza dei colori del cielo, degli specchi d’acqua  illuminati dal sole e delle varie gradazioni di verde dei campi, rimarranno sempre nel cuore.

Anche le poche attività imprenditoriali hanno sistemi di lavorazione senza età : l’alluminio riciclato viene fuso in bracieri di pietra lunghi e stretti  e convogliato in stampi di fango per formare pentole, i mattoni sono cotti ai margini della strada in alte fornaci costruite col fango, la seta grezza prodotta è raccolta dai bachi selvatici sparsi sul territori. Dai corni di zebù si ricavano pettini, posate e quant’altro di utile per la casa.

Se qui, nella zona più secca, abbiamo incontrato villaggi fatti di capanne, altrove abbiamo trovato case di mattoni con tetti spioventi; per quanto belle con balconi e ringhiere decorate, all’interno i locali appaiono bui. Le pareti  sono affumicate dal fuoco del riscaldamento che non trova sfogo per l’assenza di camini e   finestre e i locali sono molto spogli e disadorni.

Ovunque vai i bambini ti rincorrono sorridenti, c’è vera gioia nei loro sguardi, eppure il loro futuro è lì davanti,  è il presente dei loro genitori, fatto di stenti, povertà, giorni sempre uguali.  Un caso a sé è quello della vecchia città di Fianar  visitata un sabato pomeriggio: i canti in Chiesa di preparazione alla Messa, le donne sorridenti sedute sul ciglio  della strada, che saliva fino al luogo dove un tempo c’era il palazzo reale e dove ora è rimasto uno splendido albero secolare di ficus e soprattutto i bimbi ridenti e festosi  rievocavano echi di antica memoria leopardiana.

La situazione in Madagascar rimane comunque drammatica: come nel continente africano, la popolazione continua a crescere,  il fabbisogno alimentare disponibile non aumenta, si allarga la deforestazione toccando addirittura  il 567%  in più rispetto all’anno scorso.

Questo splendido Paese  rischia tra venticinque anni di fare la fine dell’isola di Pasqua.

Per la gente malgascia questo non è un problema di oggi.  Il senso della vita è nel volto di quel bambino che ho visto su una spiaggia accorrere festante incontro al padre pescatore di ritorno la sera con la sua piroga. La madre guardava ansiosa il volto del marito chino sulla barca, al bambino non interessava l’esito della pesca, ma potere abbracciare il suo papà.

 

Eugenio Pasquinucci