La ricorrenza dei settant’anni dal 25 luglio non poteva passare sotto silenzio, anzi, ha rappresentato una ghiotta occasione per riproporre una riflessione su quanto avvenne, causando, di fatto la fine del Regime e preparando gli eventi successivi, ovvero l’avvio delle trattative con gli anglo-americani, la fuga dei Savoia, la firma dell’armistizio “breve” e l’ignominia dell’ 8 settembre, prodromo di quella che potremmo definire la prima guerra civile. Uso questa definizione, mutuata da Giorgio Pisanò e ripresa più volte da Giampaolo Pansa, in quanto dopo la morte di Mussolini iniziò la seconda parte della guerra civile, o meglio, la fase di eliminazione fisica di quanti più Fascisti, e di quanti più oppositori ai piani comunisti (peraltro confusi e frammentati nelle realtà locali) possibile.
Il primo testo da considerare è, ovviamente, “25 luglio 1943” di Dino Grandi, recentemente riproposto da Il Mulino in una edizione ben curata. Ma ancora più interessante è, dello stesso Grandi, “Tutta la verità sul 25 luglio”, un documento davvero imperdibile apparso sul numero 3 del 2013 di Nuova Storia Contemporanea con una nota introduttiva di Francesco Perfetti. In questo lungo memoriale, che sostanzialmente ripercorre le fasi preparatorie della drammatica riunione del Gran Consiglio del Fascismo viene ribadito il fatto che lo stesso Mussolini ebbe modo di leggere il documento prima che fosse messo in votazione, e quindi era consapevole del rischio di essere esautorato. In più, in questo testo Grandi formula giudizi durissimi su Badoglio, che viene definito come un individuo “pervaso di sentimenti di codardia e meschina vendetta”, giudizi condivisi da altri componenti del massimo organo del Regime, primo tra tutti Giuseppe Bottai, che nel suo Diario non gli risparmia espressioni critiche.
Nella storiografia di quei giorni risalta in tutta la sua negatività la figura del duca Pietro D’Acquarone, da Grandi proposto come “uomo leggero, superficiale”, “ignorantissimo di storia e di politica”, insomma: “incapace di afferrare la gravità storica e politica della tragedia in cui la Nazione stava precipitando”. A questo figuro, tipico esponente della corte sabauda, che vantava un rapporto privilegiato con Vittorio Emanuele III è dedicato “La congiura del Quirinale” di Enzo Storoni, appena edito da Le Lettere. Dalla lettura di questo volumetto si evince la condizione di incertezza in cui versava il sovrano, e di lui vengono tratteggiati un profilo umano e politico che ne fanno risaltare la bassezza morale, culminata con l’arresto di Mussolini all’interno di Villa Savoia, e l’incompetenza politica e militare, dimostrate dalla nomina di Badoglio a capo del governo.
Molto interessante è l’inedito “Gran Consiglio ultima seduta” di Alberto De Stefani, da poco pubblicato anch’esso da Le Lettere. L’ Autore, nazionalista vicino a Corradini e già ministro delle finanze e del tesoro nel primo governo Mussolini, sedeva nel Gran Consiglio come Accademico d’Italia, e giustifica la propria adesione all’ordine del giorno Grandi con l’intento di salvare il Regime, volontà che di fatto accomunava tutti i firmatari. Non a caso, durante una sosta della lunghissima seduta notturna, Bottai e Federzoni si chiesero “cosa avrebbe fatto Italo (Balbo) se fosse stato qui?” Questa domanda, che molti storici si sono posti implica il più problematico quesito della eventuale successione al Duce; un problema che i firmatari dell’ordine del giorno Grandi si erano posti, come testimonia Luigi Federzoni in “Memorie di un condannato a morte” (Le Lettere, giugno 2013) scritto durante la latitanza dal massimo esponente del Nazionalismo, e uomo di punta del Regime, condannato a morte nel Processo di Verona.
In sintesi, dalla lettura delle non poche pagine che consentono di analizzare le posizioni di alcuni alti esponenti del Regime in quei giorni, emerge chiaramente la volontà di salvare il Fascismo senza necessariamente interrompere l’alleanza con la Germania in tempi brevi, ma arrivando a questo obiettivo con gradualità per giungere a un armistizio con gli anglo-americani in condizioni onorevoli e con un quadro politico stabile. Esattamente il contrario di quanto seppero fare Vittorio Emanuele III e Badoglio, precipitando il Paese nel caos e accettando una resa incondizionata che segnò non solo la fine di un Regime, ma la morte della Patria e di svariate migliaia di militari e civili travolti da quegli avvenimenti.
Marzio Mezzetti