Se la coppia è “di fatto”, perché disciplinarla?

Articolo di Alfredo Mantovano apparso su Tempi il 24 giugno 2016.

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Della serie: quando l’ideologia impatta con la realtà. Ricordate quando fra gli argomenti che adoperavamo in materia di convivenze vi era il già ampio riconoscimento normativo e giurisprudenziale di diritti in favore dei componenti di una coppia, sia etero sia omosessuale? Ricordate pure che, se proprio si intendeva giungere a un dettato normativo, si potevano mettere in fila quei diritti e quelle facoltà in un testo unico ricognitivo? È uno sforzo cui hanno dato seguito al Senato e alla Camera rispettivamente il senatore Sacconi e l’onorevole Pagano con non pochi colleghi, senza che però il Parlamento abbia condiviso il loro lavoro. Governo e maggioranza hanno preferito – con doppio voto di fiducia, impedendo la discussione – procedere con lo schiacciasassi, rifiutando di fermarsi anche sui passaggi della legge che, al di là delle scelte di principio, sono mal scritti e peggio coordinati. Risultato: le questioni emergono prima ancora che le nuove norme siano pienamente operative; i decreti attuativi sono ancora in fase di elaborazione.

Ne danno conto con merito quei giornali che hanno spinto di più per l’approvazione della legge, non cessando mai di sostenere che il “vuoto normativo” andava riempito senza ritardo in quanto fonte di ingiustizie. Da Repubblica si apprende così che il 31 maggio il dottor Giuseppe Buffone, giudice del tribunale di Milano, deposita una ordinanza con la quale afferma che lo status di convivente “di fatto” va riconosciuto pure a colui che ha una residenza diversa dal partner o è in attesa di divorzio dall’ex: e questo benché la legge Cirinnà lo escluda in entrambi i casi, poiché prevede lo stato civile libero e l’identità di residenza. Secondo Buffone, proprio perché ci si trova di fronte a una condizione di fatto, «convivere è un fatto giuridicamente rilevante da cui discendono effetti giuridici». Dunque, la dichiarazione anagrafica prevista dalle nuove disposizioni come costitutiva dell’avvio della convivenza sarebbe incoerente con la natura fattuale di questa: secondo il giudice, la “mera convivenza” va tutelata anche fuori dai casi previsti dalla legge Cirinnà.

Repubblica riporta l’opinione di Giuseppe Spadaro, presidente del tribunale per i minori di Bologna: «L’ordinanza di Milano è giuridicamente sacrosanta. Applicare in modo restrittivo la norma, per quanto riguarda le convivenze di fatto, significherebbe escludere la metà delle situazioni esistenti, fino a oggi tutelate grazie alla giurisprudenza». E quella dell’avvocato Cinzia Calabrese, presidente dell’Aiaf Lombardia: «La convivenza è una situazione di fatto, e c’è da chiedersi se fosse necessario disciplinarla con una norma».

Posizioni interessanti, che purtroppo arrivano a tempo scaduto, quando è stato fatto il danno dell’unione fra persone dello stesso sesso, disciplinata in tutto e per tutto come il matrimonio. Al quale si aggiunge la beffa: senza la legge Cirinnà le forme di convivenza oggi regolate dalla seconda parte dell’articolato che reca il suo nome avrebbero maggiori tutele in base al quadro normativo ed ermeneutico esistente. È straordinario leggere su Repubblica che «a partire dagli anni Ottanta, in assenza di una norma, i giudici di ogni grado hanno cominciato a riconoscere alla coppie di conviventi eterosessuali tutele simili a quelle previste per gli sposati. Fra le altre, (…) l’obbligo di mantenimento del partner in caso di separazione, il diritto al subentro nell’affitto in caso di morte del compagno, e il diritto all’assistenza in ospedale».

Finché lo scrivevamo noi eravamo biechi discriminatori. Che la senatrice Cirinnà venga corretta a stretto giro (e la sua legge disapplicata) da quell’intervento giudiziario che ella ha sempre invocato per sostenere l’adeguamento delle norme alla giurisprudenza è solo uno dei tanti casi di applicazione del contrappasso. Che di ciò faccia lezione la Repubblica è un altrettanto interessante caso di deontologia giornalistica a scordare il giorno dopo quel che si è scritto il giorno prima. Né l’uno né l’altro caso consolano neanche un po’.