Ci si può avvitare sugli emendamenti. Il punto più critico del disegno di legge sulle cosiddette unioni civili sta però in quello che la Presidenza della Repubblica ha fatto trapelare qualche giorno fa, senza essere smentita: il testo non va bene perché sovrappone il regime del matrimonio e il regime della convivenza fra persone dello stesso sesso; e ciò contrasta con la Costituzione, che adopera all’articolo 29 espressioni che non lasciano margini di equivoco. Contrasta pure con l’esegesi che di quella norma fondamentale la Corte costituzionale ha dato sei anni fa, con la sentenza n. 138/2010, allorché – pur richiamando la necessità del riconoscimento di diritti ai componenti di una coppia same sex – ne ha escluso la parificazione al matrimonio.
Ciò significa che quand’anche la cosiddetta stepchild adoption fosse stralciata dal ddl Cirinnà, l’applicazione alle coppie omosessuali del medesimo regime previsto per i coniugi condurrebbe in modo rapido all’adozione. Ci si arriva per il richiamo – che il ddl fa – alle norme del codice civile che disciplinano il matrimonio, addirittura a quegli articoli che il celebrante legge al momento delle nozze. La Corte europa dei diritti dell’uomo ha sempre affermato che – fermi restando i diritti elementari, peraltro già ampiamente riconosciuti nell’ordinamento italiano – ogni singolo Stato membro del Consiglio d’Europa ha facoltà di regolare nel proprio ordinamento in modo distinto, ovvero in modo eguale, la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna e l’unione fra persone omosessuali: se però sceglie la seconda strada, cioè quella del trattamento omogeneo, non può lasciare fuori nulla. E dunque, non può articolare un regime di unioni civili sul modello matrimoniale e tenere fuori la possibilità di adottare. Tolto l’art. 5 dal ddl – quello della stepchild adoption – il problema adozione resterebbe in piedi tale e quale, e nella sua interezza, se non cambiano radicalmente gli articoli precedenti il 5.
Per questo il ddl, per lo meno nella sua prima parte – quella specificamente dedicata alle coppie same sex– è inemendabile. Per questo nel dibattito che inizia al Senato giovedì prossimo le questioni pregiudiziali e quelle sospensive sono più importanti rispetto agli emendamenti proposti. E’ evidente che se le pregiudiziali fossero votate e respinte, la battaglia parlamentare si sposterebbe sugli emendamenti, ma sarebbe una battaglia residuale, se pur necessaria: la sostanza è tutta sulla sovrapposizione del regime famiglia/unione civile. Le pregiudiziali, proposte da senatori di gruppi dell’opposizione come Forza Italia, Lega e Idea, ma anche di maggioranza, come Alleanza Popolare, affrontano nel merito i nodi critici del ddl, concentrandosi sul contrasto fra esso e l’art. 29 Cost. e fra esso e le disposizioni costituzionali che tutelano i figli. Vi è però un profilo, che permetterebbe – se non vi fossero preclusioni ideologiche – di chiudere la partita senza neanche entrare nel merito.
E’ un profilo in apparenza formale: l’art. 72, comma 1, della Costituzione impone che “Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale”. Il regolamento del Senato contiene proprie disposizioni che danno esecuzione al precetto costituzionale. In contrasto con esso, il ddl Cirinnà è stato iscritto all’ordine del giorno dei lavori dell’Aula del Senato senza che su di esso sia nemmeno formalmente iniziato l’esame in Commissione Giustizia. Il dato è solo in apparenza di forma, perché l’approfondimento in Commissione permette una disamina più dettagliata e meno sommaria; la Corte costituzionale è già intervenuta sul punto con la sentenza n. 32 del 12 febbraio 2014 e ha dichiarato illegittima la legge n. 49 del 21 febbraio 2006 – la riforma sulla droga, la cosiddetta Fini-Giovanardi – che convertiva con modificazioni il decreto-legge n. 272 del 30 dicembre 2005. La ragione della censura è stata in quella sentenza la eterogeneità della materia-droga, che era stata aggiunta con un emendamento del Governo in sede di conversione rispetto alla versione originaria del decreto; la Corte ha rilevato la carenza di quella disamina approfondita che compete al Parlamento; identica logica vale pure in sede di legislazione delegata: e il ddl Cirinnà prevede per la sua attuazione il varo di decreti attuativi delegati.
La violazione dell’art. 72 della Costituzione costituisce un grave precedente, cui qualunque maggioranza potrebbe in futuro richiamarsi per far approvare senza esame in Commissione proposte che necessitano di approfondimento e di confronto parlamentari. Quella violazione può tradursi in motivo di censura davanti alla Corte costituzionale, col rischio di annullamento dell’intero provvedimento approvato da un Parlamento privato della discussione in una parte importante di esso, su una materia altamente significativa. Se, al netto dell’ansia ideologica che vuol far bruciare le tappe a tutti i costi, residuasse un po’ di buon senso, un rischio del genere non dovrebbe essere affrontato alla leggera: prendersi del tempo e tornare in Commissione per riflettere meglio sarebbe la soluzione più saggia.
Poi, certo, ci sono gli emendamenti. Ne segnalo due, fra gli altri. Quello di alcuni senatori del Pd sull’utero in affitto; la sua presentazione segnala per lo meno tre aspetti: a) il riconoscimento da parte dei proponenti che il ddl Cirinnà apre la strada per pervenire, insieme con l’adozione, alla maternità surrogata (altrimenti perché lo formulano con riferimento a esso?); b) il riconoscimento che le disposizioni attuali, pur contenendo il divieto, non sono efficaci per sanzionare il comportamento di chi parte dall’Italia, “acquista” un bambino con la maternità surrogata realizzata in uno Stato in cui essa è consentita, e poi lo conduce in Italia dichiarandolo all’anagrafe come proprio; c) la tardività di tali riconoscimenti, dal momento che un emendamento del genere era stato presentato durante la discussione in Commissione da senatori di altri gruppi politici, ed era stato respinto anche con i voti del Pd. Se si arriva alle medesime conclusioni dopo qualche tempo, non è una ragione per prendere altro tempo per ridefinire l’insieme?
L’altro emendamento è quello sul cosiddetto affido rinforzato, che – come è stato notato – lessicalmente traspone alla materia dei minori una terminologia più adatta agli aperitivi. La sostanza è quella della confusione fra due istituti, l’affido e l’adozione, che rispondono a logiche e perseguono obiettivi non sovrapponibili: l’affido ha il carattere della provvisorietà, e in tal senso fa mantenere i rapporti con la famiglia di origine, punta al rientro in essa, non cambia il legame giuridico del minore con i genitori, che restano tali a tutti gli effetti; l’adozione conduce all’interruzione dei rapporti con la famiglia originale, tanto che il minore acquisisce il cognome dei genitori adottivi, e per questo presuppone requisiti più rigorosi rispetto a quelli previsti per gli affidatari. L’affido mira a far superare al minore una situazione di temporaneo disagio rispetto alla propria famiglia, l’adozione rende definitivo l’ingresso nella nuova famiglia.
In entrambi i casi il punto di riferimento è l’interesse del minore, che varia e conosce risposte differenti a seconda della situazione di partenza. Nell’affido la generosità della famiglia che accoglie è ancora più esaltata: ci si trova di fronte a un aiuto e a un sostegno tesi a garantire al minore – in una fase di particolare disagio suo e della famiglia di origine – il diritto a vivere in un ambiente che soddisfi le sue esigenze educative e affettive, nella prospettiva di oltrepassare la condizione difficile, senza vantare alcuna pretesa in ordine alla permanenza a tempo indefinito nel nucleo familiare che sta provvedendo a lui. Con l’emendamento di alcuni senatori Pd l’affido cambia natura e diventa – al di là delle intenzioni e delle qualifiche – una para-adozione: rispetto a essa il decorso del tempo – quasi il minore fosse un oggetto da usucapire – fa giungere a una sistemazione definitiva nella famiglia di destinazione. Il bambino è trasformato in un oggetto da ottenere in nome del nuovo “diritto a un figlio”, e non un soggetto da tutelare: qualcosa che soddisfa il desiderio del figlio di una coppia same sex e non una persona la cui situazione esige aiuto, non uso strumentale. E’ una ragione in più per prendere tempo e rifletterci ancora.